Ilfattoquotidiano.it ha raccolto la storia di Federica che, poco prima del lockdown, si è dovuta spostare prima in Svizzera e poi a Nizza e Marsiglia per riuscire a portare a compimento l'interruzione di gravidanza decisa dopo aver scoperto una grave malformazione del feto. Ma la sua è solo una delle tante storie raccolte negli anni dalle associazioni e, molto spesso, a dare indicazioni per l'espatrio ufficiosamente sono gli stessi operatori sanitari. Il gruppo di ricerca Europe abortion access: "Difficile conoscere il numero esatto. La maggioranza delle donne italiane vanno in Inghilterra, Spagna e Olanda"
È il 24 febbraio, il Covid-19 sta per mettere in lockdown l’Europa e Federica (pseudonimo) è alla 28ma settimana di gestazione quando riceve i risultati dell’esame genetico consigliato dai medici dopo una lunga serie di analisi: il figlio che aveva desiderato è affetto da acondroplasia, una malformazione fetale grave. In Italia la legge non prevede limiti temporali per l’interruzione volontaria di gravidanza del secondo trimestre, ma c’è il limite della cosiddetta viability, cioè la possibilità di sopravvivenza fetale, che l’esperienza clinica indica intorno alle 22 settimane. Dopo questo periodo, la donna deve partorire e il medico deve rianimare il feto e tenerlo in incubatrice per mantenerlo in vita. Sono tante le testimonianze, raccolte dalle associazioni negli anni, di donne che, per interrompere una gravidanza dopo aver scoperto una malformazione fetale grave dopo questa soglia, cercano di farlo andando all’estero: Francia, Belgio e Inghilterra, perlopiù. La strada, però, non è affatto semplice. E lo è ancora meno ora, dopo che gli ospedali sono stati travolti dall’emergenza coronavirus rendendo più difficile l’interruzione di gravidanza in tutta Italia (leggi qui le testimonianze raccolte da ilfattoquotidiano.it).
Nei casi più fortunati, sono i medici dell’ospedale in cui si è accertata la malformazione a dare informazioni, ma lo fanno in via del tutto ufficiosa. Una versione che ufficialmente è smentita in ogni circostanza, ma che trova riscontro nelle testimonianze delle donne. Così è successo a Federica, che, come ha raccontato a ilfattoquotidiano.it, ha ricevuto informazioni da alcuni operatori sulla possibilità di ricevere assistenza in Belgio. Ma l’emergenza coronavirus è appena iniziata e nonostante Federica risulti negativa al tampone riceve il rifiuto dell’ospedale, perché considerata a rischio infezione. Il 25 febbraio, dopo essersi vista rifiutare anche da una clinica universitaria di Zurigo, sempre per lo stesso motivo, Federica si mette in viaggio per andare in Francia prima che chiudano le frontiere. La prima tappa è Nizza, seguendo le orme di altre donne attraverso le indicazioni su un forum online. La procedura, che richiede un periodo compreso tra alcuni giorni e due settimane, prevede una visita ginecologica privata, la valutazione del caso da parte del comitato etico dell’ospedale e l’intervento con ricovero di una notte. Preoccupata per i tempi di attesa, Federica si rimette in viaggio per fare un altro tentativo nella città più vicina. La tappa successiva è dunque Marsiglia. Qui viene presa in carico subito: entro tre giorni lavorativi le viene fatta l’ecografia, che conferma la malattia grave del feto, e pochi giorni dopo il comitato etico dà il via libera per interrompere la gravidanza. Al momento del suo arrivo a Marsiglia Federica è a 30 settimane di gestazione. Racconta: «Mi hanno trattato con grande gentilezza e cura. Mi hanno dato la morfina e mi hanno fatto l’epidurale perché non provassi dolore, altrimenti sarebbe stata un’esperienza veramente scioccante, perché quello che hai è il dolore del parto, ma con un figlio morto. Ti danno dei calmanti e ti fanno un’iniezione nel cordone ombelicale, prima l’anestesia in modo che il feto non provi dolore, poi un’altra che provoca l’arresto cardiaco del feto. Poi ti danno le pasticche per indurre il parto ed iniziano le contrazioni. Ti chiedono se vuoi portare il corpo in Italia per seppellirlo, oppure ti offrono di cremarlo e le ceneri spargerle nel cimitero dei bambini nell’ospedale, in cui una volta all’anno c’è un ritrovo di tutte le famiglie che hanno avuto questo lutto. Come mi sento adesso… Ciò che mi fa andare avanti è di avere risparmiato tanta sofferenza a lui – dico lui perché sarebbe stato un maschio. Io lavoro in ospedale e vedo tanti bambini malati. Prendere una scelta così per tuo figlio è molto difficile».
Ma non c’è solo la storia di Federica e ad essere costrette ad andare all’estero per abortire sono state altre donne prima di lei. Serena (pseudonimo), psicologa clinica, racconta del suo viaggio di un anno fa: “Nella nostra società non c’è posto per il lutto perinatale e chi ne parla mette a disagio gli altri. È come se ti obbligassero a metterlo in un angolino della memoria, perché tutti ti dicono che non devi pensarci più”. Il suo viaggio si è svolto l’anno scorso ed è partito da una città della Toscana per arrivare a Nizza, dove la procedura è stata quella descritta anche da Federica. «Dalla ecografia morfologica della 20ma settimana non si vedevano le camere cardiache. Dopo un’ulteriore ecografia da ginecologo privato mi hanno mandato all’Ospedale Careggi per l’ecografia di 2° livello ed ero già di 5 mesi. Lì si è visto che il cervello non stava crescendo. Dopo altri esami si è scoperto che il feto aveva la sindrome da delezione 1p36, malattia genetica rara. Ma ormai avevo superato le 22 settimane, quindi avrei dovuto partorire e il bambino sarebbe sarebbe forse sopravvissuto, ma in condizioni terribili. Le genetiste dell’Ospedale sono state disponibili e mi hanno prospettato la possibilità di andare all’estero, ma non erano informate su quali ospedali in quali parti del mondo facessero questo intervento. Bisogna arrangiarsi: un po’ trovi su internet, un po’ con il passaparola. All’ospedale di Nizza, che ho trovato su internet, sono stata indirizzata subito da una ginecologa che parla italiano, che mi ha fatto la visita e l’ecografia. Poi sono tornata in Italia e ho aspettato circa due settimane, in attesa della decisione del comitato etico, che è stata favorevole. Sono poi tornata per l’intervento, almeno 4 giorni prima».
I costi possono essere molti alti, fino a 4000 euro, e la direttiva europea (2011/24/UE del Parlamento e del Consiglio) che prevede il diritto all’assistenza sanitaria transfrontaliera per le cittadine non residenti viene interpretata in modo più o meno elastico. In Belgio il costo si aggira sui 4000 mila euro spese di viaggio escluse. Con l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale belga il costo delle cure può essere interamente risarcito, ma il servizio di fatturazione dell’ospedale chiede il pagamento anticipato. Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per applicazione della legge 194) dà informazioni e spiega come funziona la procedura ed è possibile chiedere aiuto anche a Change194, fondata da donne che hanno vissuto questa esperienza.
A migrare non sono solo donne per interruzioni volontarie di gravidanza del secondo trimestre, cioè per il cosiddetto aborto terapeutico, ma anche donne che non sono riuscite a interrompere la gravidanza nel primo trimestre. Mentre in Italia, infatti, l’aborto volontario è possibile fino alla 12ma settimana di gestazione e dopo si può fare solo se è a rischio la salute fisica o psichica della donna, in altri Stati il limite cambia. In Spagna, ad esempio, il primo limite è a 14 settimane; in Inghilterra il limite per qualsiasi tipo di IVG sono 24 settimane, in Olanda non c’è un limite specifico se non la viabilità fetale; in Svezia sono 18 settimane e in Norvegia 22.
Il fenomeno è stato studiato dalle ricercatrici del progetto Europe abortion access, finanziato dalla Comunità europea (European Reseach Council, ERC), che hanno analizzato gli spostamenti fatti dalle donne, all’estero o nel proprio paese, per ottenere un’interruzione della gravidanza per la quale hanno incontrato ostacoli nella propria zona o Stato di residenza. Il gruppo di ricerca ha cominciato a lavorare nel 2016 e i primi risultati sono in fase di pubblicazione. Ne abbiamo parlato con la coordinatrice del progetto Silvia De Zordo, antropologa dell’Università di Barcellona, e con la ricercatrice Giulia Zanini, antropologa dell’Università Queen Mary di Londra.
«Sono più di 6000 le donne, provenienti da diversi Paesi europei, che vanno ad abortire in Inghilterra e Olanda. Poi ci sono tutte le altre destinazioni, ma non sempre è possibile conoscere il numero esatto delle donne che viaggiano all’estero. La maggioranza delle donne italiane vanno in Inghilterra, Spagna e Olanda. In Francia vanno quando superano il limite della viability. La ragione principale per cui le donne residenti in Italia viaggiano all’estero è il limite di età gestazionale» spiegano De Zordo e Zanini. «Il campione che abbiamo non è rappresentativo, ma ci dà spunti interessanti. La maggioranza si è resa conto della gravidanza oppure ha deciso di interromperla quando ormai il limite dei tre mesi era vicino. Le ragioni sono molteplici: irregolarità mestruali, problemi ormonali, difficoltà personali o familiari (separazioni, malattia, grandi stress) per cui non si sono accorte. Oppure sono state mal consigliate da medici che non hanno capito i segni di una possibile gravidanza o per età gestazionale calcolata male. Fra le donne provenienti dall’Italia che hanno risposto al nostro questionario c’è anche una percentuale non irrilevante che hanno deciso di interrompere in tempo utile, ma non ci sono riuscite e qui sono emerse diverse barriere: accesso all’informazione, accesso ai servizi, rifiuto da parte dei medici contattati, mancanza di indicazioni su dove potevano andare. Abbiamo diversi esempi di questo tipo. Queste barriere sono specifiche per l’Italia. Non stupisce, al confronto con Francia e altri paesi dove ci sono, per esempio, siti istituzionali e numeri verdi nazionali per l’aborto».
La relazione annuale del Ministero della salute sulla applicazione della legge 194 non dedica attenzione specifica a questo fenomeno. In quella più recente, che riporta i dati del 2017, una sola tabella mette a confronto i dati italiani con quelli internazionali, giustificando le differenze con «una diversa legislazione» e con «la disponibilità di servizi». Quella dei viaggi all’estero per aborto del secondo trimestre sembra essere la solita storia all’italiana: si sa, ma non si dice. E le donne pagano, come sempre, il prezzo più alto.