Anch’io contesto lo stereotipo di genere dell’app Immuni, lo contesto perché è giusto farlo, perché non sopporto che sulla porta dei bagni delle femmine a scuola c’è la principessa e su quella dei maschi c’è il supereroe, non sopporto che il rosa è da femmina e l’azzurro da maschio. E poche balle, è come quando ci abituiamo a usare male le parole: gli amici son quelli veri non quelli social; clandestino era sinonimo di segreto, oggi è un essere umano colpevole di un destino avverso; la realtà aumentata è viverla, non guardarla attraverso uno schermo.
Per questo contesto lo stereotipo di genere dell’app Immuni, perché un bambino non può essere usato solo quando s’è finito di usare gli altri, gli adulti, perché un bambino non può rappresentare il peso che si palleggiano madre e padre, maschio e femmina, femmina e femmina o maschio e maschio.
Mentre l’attenzione si concentrava sull’icona di donna che reggeva il pargolo e di uomo che lavorava (o cazzeggiava) al computer, nessuno si rendeva conto che il carico, il peso, la zavorra era determinata dall’unico essere senza colpe: un bambino, icona dell’Iva umana da scaricare all’altro, simbolo di ciò che è giusto se fai cambio con un portatile. Nella lotta di una cultura da asporto che avvantaggia l’uomo e troppa carne di donna esibita come ricompensa, dove a intervalli regolari si parla di quote rosa come se la quantità di donna rappresentasse la qualità di ciò che è, in tutto questo uomo e donna distrattamente non si accorgono che i bambini sono accessori di genere, in fondo resilienti quanto basta perché tanto cresceranno, ma troppo tardi.
Nell’app Immuni manca una finestra, quella che dovrebbe essere spalancata, quella di un paese che apre tutto tranne le scuole. E’ la terza finestra: dove un/a bambino/a si affaccia dall’aula, saluta i bar che riaprono, il calcio che riparte, la politica che litiga, gli adulti che fanno i grandi. Giusto così: in fondo i bambini sono un accidente biologico.