Ripartenza: è questa la parola d’ordine del mese di giugno, almeno in Italia e in Europa. E non possiamo che esserne tutti contenti. Il problema è capire dove questa ripartenza ci porterà.
La pandemia legata al Covid-19 ha stravolto le nostre vite, prima ancora che le economie di tutto il mondo. Per ripartire tantissimi cittadini, associazioni e gruppi della società civile hanno chiesto però un cambio di rotta, per non tornare alla “vecchia normalità”. In cui i profitti sono stati considerati più importanti della salute, l’ambiente è stato calpestato e le conseguenze dell’inquinamento scaricate sulle spalle di chi vive in aree impattate.
Mentre tanti cittadini continuano a fare legittime richieste alle istituzioni – a livello locale, nazionale e comunitario – le grandi aziende inquinanti fanno pesanti pressioni per restaurare il modello economico pre-crisi sanitaria, o addirittura per allentare gli standard ambientali. Tra i protagonisti di queste attività ci sono certamente le industrie legate al settore dei combustibili fossili. Carbone, petrolio e gas, i principali responsabili dell’emergenza climatica che viviamo, non vogliono cedere il passo alle energie rinnovabili. E purtroppo continuano ad ottenere supporto pubblico.
Secondo una analisi di Greenpeace Eu, tra metà marzo e metà maggio 2020, nell’ambito della sua risposta alla pandemia di coronavirus, la Banca Centrale Europea (Bce) ha acquistato obbligazioni societarie per quasi 30 miliardi di euro. Tra queste, oltre 7,6 miliardi sono di aziende fossili. Con l’acquisizione di obbligazioni da soli sette grandi inquinatori, la Bce ha contribuito alla crisi climatica con l’acquisto dell’equivalente di circa 11,2 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio nell’atmosfera, ovvero più delle emissioni annuali del Lussemburgo.
Tra le aziende fossili in questione c’è anche Eni, tra i maggiori responsabili delle emissioni di CO2. Oltre 3 miliardi di euro infatti sono andati dalla Bce verso aziende legate al settore del petrolio e del gas, come Shell, Total e appunto il Cane a sei zampe. Queste aziende non solo sono responsabili di emissioni di gas serra, ma continuano ad alimentare la crisi climatica e non hanno alcuna intenzione di abbandonare i combustibili fossili, come dimostrano proprio i piani recentemente presentati da Eni, basati sul gas fossile per i prossimi 30 anni e oltre.
Greenpeace ribadisce la propria richiesta a governi e istituti di credito affinché smettano di supportare il settore fossile. In particolare, la Bce deve escludere dagli acquisti futuri i combustibili fossili e altri beni ad alta intensità di emissioni. Inoltre, la revisione della politica monetaria della Bce, che viene discussa oggi, deve portare all’inclusione del rischio climatico in tutte le operazioni della banca.
Per uscire da questa crisi e non ripiombare immediatamente in un’altra – che sia ambientale, economica o sanitaria – occorre anche imparare dagli errori fatti in passato, talvolta in malafede. A seguito della crisi economica del 2008, infatti, gran parte dei fondi della Bce per la ripartenza andarono alle grandi aziende inquinanti, con pochi o nulli benefici per persone e ambiente.
Secondo uno studio pubblicato nel 2017 oltre il 62% degli acquisti di obbligazioni societarie realizzati con il Quantitative Easing della Banca Centrale Europea – in sostanza una massiccia iniezione di denaro pubblico nelle casse delle aziende per rilanciare l’economia – ha beneficiato i settori manifatturieri e della produzione elettrica e di gas. Questi settori erano responsabili del 58,5% delle emissioni climalteranti dell’Eurozona, ma rappresentavano solo il 18% del valore aggiunto lordo. Di interventi su settori virtuosi come le fonti rinnovabili ci sono ben poche tracce.
In questi mesi così difficili abbiamo imparato l’importanza di ascoltare la comunità scientifica e agire di conseguenza. Un approccio che va assolutamente adottato anche quando si parla di cambiamenti climatici. Per questo dobbiamo chiudere subito il rubinetto dei soldi pubblici alle aziende che investono in petrolio, gas e carbone. Perché ogni euro speso in questo settore ci avvicina sempre più al disastro climatico.