La drammatizzazione è un elemento cruciale del far politica. Ma l’altro giorno mi è sembrato visibilmente infastidito il presidente del gruppo Renault, Jean-Dominique Senard, nei confronti del ministro dell’Economia francese che, a borse aperte e pur essendo il governo azionista, aveva detto alla radio: “Renault potrebbe scomparire”. Nel corso della presentazione del piano di ristrutturazione del gruppo, Senard gli ha risposto indirettamente così: “Il Covid-19 ha legittimato l’urgenza di questo intervento, ma tutti i costruttori lavorano oggi per la sopravvivenza”.
Vero. Basta guardare alla vicenda del prestito Fiat Chrysler, ai licenziamenti di Aston Martin, alle nuove linee di credito chieste nel mezzo dell’emergenza sanitaria da Daimler, Toyota, Ferrari, Ford, Gm, Psa oltre che Renault e dimentico sicuramente qualcuno. Non Bloomberg, che ha quantificato il boom di “loan” e “bond” in 155 miliardi di dollari per l’intera filiera automotive mondiale. Diversi dei quali arrivati grazie a garanzie pubbliche.
Renault dunque sopravviverà. Ma fino a quando da sola? E gli altri? Negli anni 80, Gianni Agnelli disse che un giorno sarebbero rimasti solo “tre o quattro” gruppi auto al mondo. Nel febbraio del 1991, l’Avvocato ci tornò sopra con altre parole, affidate alla prefazione dell’edizione italiana de “La macchina che ha cambiato il mondo”, una straordinaria ricerca del Mit che mise nero su bianco la supremazia produttiva mondiale del sistema Toyota: “Una sorta di distruzione creatrice – scriveva l’Avvocato – sembra essere la nota dominante di questo ultimo scorcio del Secolo Ventesimo”.
Oggi siamo nel terzo millennio e i gruppi sono ancora più di “tre o quattro”, anche se nel frattempo Sergio Marchionne ha allargato generosamente la profezia “a cinque o sei”. Ma domani? Gli sconquassi di sistema provocati dal coronavirus e la voglia di interventismo statale ben oltre un ruolo da regolatore potrebbero far tornare d’attualità previsioni apparentemente insensate. Oltre a dare subito a Senard quel che è di Senard.
Giochiamo. E diciamo che entro il 2043 potrebbero restare sette gruppi dell’auto. Uso volutamente la stessa data per la quale tempo fa era stata annunciata l’ultima copia di carta del New York Times, ma che la settimana scorsa è stata anticipata intorno al 2030 dal suo amministratore delegato. Giusto per tenersi sempre pronti.
Un gruppo sopravvissuto sarà francese: Renault fuso con Psa grazie al solito protagonismo di un governo di qualsiasi colore purché napoleonico. Pas mal, anche perché Psa avrà già in pancia Fiat Chrysler, evento visibile a noi contemporanei tra pochi mesi.
Due i gruppi tedeschi: Volkswagen, oggi con 12 marchi e un futuro elettrico che passa obbligatoriamente per la Cina, pena andare gambe all’aria e non rispettare la profezia. L’altro è una lussuosa fusione Bmw-Daimler benedetta dallo stato federale a Berlino, che potrebbe perfino avere un piede dentro. Niente di non visto: l’altro ce l’ha già in Volkswagen tramite il Land della Bassa Sassonia.
Uno giapponese: Toyota è già una galassia con altri marchi piccoli dentro, uno stato nello stato che d’intesa con il governo di Tokyo potrebbe riuscire a digerire l’orgogliosa Honda dello stay alone. E quel che resta di Nissan, se la sua Alliance con Renault non portasse da nessuna parte.
Uno coreano: Hyundai-Kia che non ha mai mollato, né dopo la crisi finanziaria del 2008 continuando a investire, né successivamente svoltando sull’elettrificazione senza paura nonostante battesse in testa su alcuni mercati. Aiutato da uno stato-nazione ispirato dagli intramontabili chaebol e da un certo autoritarismo che non fa una piega.
Uno cinese: quale, bella domanda. Geely che si è mangiata Volvo ed è primo azionista di Daimler, potrebbe fare da catalizzatore di tanti piccoli marchi come Toyota in Giappone. Oppure Byd, se Warren Buffett continuerà a stargli dietro dall’alto dei suoi prossimi 90 anni. E non è detto che le tante joint venture seguirebbero le case madri straniere: deciderà il Partito.
Il settimo è americano: soprattutto se Donald Trump fosse rieletto – e sarebbe una sventura mondiale – la politica potrebbe accelerare quel processo di concentrazione conseguente all’ideologia dell’America First. Gm capofila per dimensioni, con Ford dentro – o almeno: di quel che resta se non se li mangiano prima i tedeschi di Volkswagen. Più Tesla a trovare finalmente pace, insieme alle poche start up sopravvissute della Silicon Valley. E magari con un (anagraficamente) maturo Musk a guidare da Marte il gruppone made in Usa.
Impensabile? Nulla lo è dopo quello che sta accadendo in questo 2020.