I giovani che tornano in piazza, mettendo a rischio la propria incolumità, in nome dei diritti umani. È questo il tema centrale scelto da Amnesty International che ha presentato il proprio rapporto 2019-2020. I ragazzi che sono tornati a far sentire la loro voce hanno fatto registrare numeri che non si vedevano dal 2010-2011, anni in cui sono esplose le cosiddette Primavere arabe. Le richieste di queste “decine di milioni di persone”, ancora non soddisfatte, sono sempre le stesse di quasi un decennio fa: giustizia, libertà, dignità, rispetto dell’ambiente, fine della corruzione, stop alla violenza. E tra i 19 Paesi sui quali l’organizzazione ha deciso di realizzare degli approfondimenti c’è anche l’Italia, dove si è registrata una “situazione particolarmente critica sul tema diritti umani“, già dal 2018. Con la pandemia, poi, nel Paese si è anche arrivati alla “nascita di un nuovo proletariato, quello dei precari“.
I nuovi movimenti di piazza, guidati dai giovani di tutto il mondo, hanno sfidato la repressione dei governi, pronti a colpire con violenza, incarcerazioni e violazioni dei diritti umani coloro che osano sfidare la loro autorità: “Ovunque, questa moltitudine di persone è stata sfidata e repressa, ma nonostante questa repressione, le persone sono scese in piazza con numeri che non si vedevano da tempo – ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia – A Hong Kong metà della popolazione è scesa in piazza nel 2019, in Cile i Carabineros hanno sparato agli occhi dei manifestanti, a Baghdad sono state usate granate lacrimogene che hanno letteralmente fracassato crani, in Egitto ci sono stati migliaia di arresti, almeno 4 mila”.
L’ultimo esempio è la reazione all’uccisione a Minneapolis di George Floyd, indice di “un risveglio della società civile. Di un cambio di passo che dice ‘attenzione, se superate la soglia la gente si rende conto'”.
Il coronavirus ha fatto esplodere il problema delle disuguaglianze: “In Italia nato il proletariato dei precari”
I primi mesi del 2020 sono stati caratterizzati dalla pandemia di Covid-19. L’Italia è uno dei Paesi più colpiti da un virus che ha però evidenziato il problema delle “disuguaglianze, cuore della crisi”, scandite a livello globale da una “scarsa risposta all’epidemia” e “dall’aggravarsi del mancato rispetto dei diritti umani”, ha spiegato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. E proprio nel nostro Paese, si legge nel report, il Covid-19 apre alla “nascita di un nuovo proletariato, quello dei precari”, denunciato dalla Caritas che “ha registrato un aumento di afflusso alle sue mense del 30%”.
Ovunque la pandemia ha aumentato il divario tra ricchi e poveri: “Sia tra Nord e Sud globali che all’interno delle singole realtà”. Sono incrementati i fenomeni sociali di stigmatizzazione, spesso legati a “chi ci ha portato la malattia”, confluiti, ad esempio in Italia, in “atti sinofobi a febbraio”. E anche in questa occasione, in maniera diffusa a livello globale si è continuato ad attribuire la “colpa ai migranti, massivamente arrestati e messi in isolamento”.
Forme di discriminazione anche nell’assistenza: “Nei paesi del Sud, gravi e spesso a danno delle donne, come in Afghanistan“, ma anche dei “senza fissa dimora e di chi non poteva restare in casa a causa delle violenze domestiche“.
Italia, “situazione critica per i diritti umani, nessuna discontinuità col governo precedente”
All’Italia è dedicato uno dei 19 approfondimenti realizzati dall’organizzazione (gli altri Paesi sono Arabia Saudita, Brasile, Cina, Egitto, India, Iran, Libia, Myanmar, Polonia, Repubblica Centrafricana, Russia, Siria, Somalia, Stati Uniti d’America, Sudan, Turchia, Ungheria e Venezuela) con in evidenza una “situazione particolarmente critica sul tema diritti umani” che nel 2019 vede il proseguimento di “una serie di situazioni preoccupanti già evidenti nel 2018”.
Emanuele Russo, presidente di Amnesty Italia, nel corso della presentazione ripercorre gli anni dei due governi Conte spiegando che “l’avvicendamento tra due coalizioni di governo, nonostante alcuni iniziali e promettenti annunci, non ha prodotto una significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia, in particolare quelle relative a migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Per tutto l’anno, le navi delle ong sono state ostacolate da minacce di chiusure dei porti e da ingiustificati ritardi nelle autorizzazioni all’approdo. Il 2019 si è chiuso col rinnovo della cooperazione con la Libia per il controllo dei flussi migratori”.
Una politica, quella in tema di migrazione, che ha caratterizzato tutto il 2018, che nei primi sei mesi aveva Marco Minniti a capo del Viminale, e definitivamente sdoganata dall’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, fautore della strategia dei “porti chiusi” che, sostiene Amnesty, ha dato il via a una stagione di aggravamento della situazione legata al rispetto dei diritti umani. Situazione che, però, non ha ancora conosciuto un punto di discontinuità: “Fino ai giorni del Papeete noi troviamo un governo che è quanto di più lontano si possa pensare dal nostro modo di vedere le relazioni tra Paesi, Stati e cittadini”, ha aggiunto Russo.
I comizi salviniani dalle spiagge romagnole hanno però segnato anche la fine della presenza della Lega e del suo leader all’esecutivo. Un cambio al vertice che con l’entrata del Pd nella coalizione col Movimento 5 Stelle, “nonostante alcuni iniziali e promettenti annunci, non ha prodotto una significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia”. Il secondo governo Conte ha presentato un nuovo programma, che “nelle intenzioni adottava una linea politica e una retorica meno populiste e meno incentrate sul contrasto all’immigrazione”. Tuttavia, “le politiche e la retorica anti-immigrazione del primo governo Conte hanno continuato ad avere un forte impatto sull’esercizio dei diritti da parte di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, all’interno del Paese così come alle frontiere”.
“Secondo le stime – si legge nel rapporto – a poco più di un anno dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 che ha abolito lo status di protezione umanitaria, ad almeno 24mila persone è stato negato uno status legale, limitando il loro accesso all’assistenza medica, all’alloggio, ai servizi sociali, all’istruzione e al lavoro, lasciandoli in una condizione di vulnerabilità, sfruttamento e abusi“. Queste nuove disposizioni, aggiunge il report, “hanno inoltre avuto conseguenze disastrose sulle opportunità d’integrazione per i richiedenti asilo, rimasti esclusi dalla rete di strutture di accoglienza gestita dalle autorità locali, e li hanno esposti a detenzione prolungata nei centri per il rimpatrio, in condizioni gravemente al di sotto degli standard e con ridotte opportunità di comunicare con avvocati e familiari”.
E ad esempio vengono presi anche i rapporti Italia-Libia: “I rapporti con la Libia sono stati tra gli aspetti più controversi del nostro modo di fare cooperazione”, si legge. Anche dopo l’accordo rinnovato a novembre dal Conte II, la “politica dei porti chiusi non muta e non ci sono cambiamenti reali sull’agire del Governo”, dicono da Amnesty definendo il 2019 “un anno disastroso”, “una galleria degli orrori“.
“Casi di tortura nella carceri italiane”
In Italia sono stati “segnalati nuovi casi di tortura e altri maltrattamenti nelle carceri”, aggiunge inoltre Amnesty. “A settembre – si legge – 15 agenti di custodia sono stati indagati per molteplici reati, tra cui tortura aggravata, in relazione all’aggressione contro un detenuto avvenuta nel carcere di San Gimignano, in provincia di Siena, nel 2018. Quattro degli agenti sono stati interdetti dal servizio, su disposizione del giudice per le indagini preliminari”. Ad aggravare la situazione, secondo l’organizzazione, il fatto che “una settimana dopo che era emersa la notizia dell’apertura di un’indagine, l’allora ministro dell’Interno (Matteo Salvini, ndr) ha visitato il carcere esprimendo quello che è sembrato essere un sostegno incondizionato agli indagati, compromettendo in tal modo gli sforzi della magistratura e dell’amministrazione penitenziaria di assicurare l’accertamento delle responsabilità per gravi violazioni dei diritti umani. A fine anno l’indagine era ancora in corso”.
Buone notizie dalla Giustizia. “Ma tempi mastodontici”
Tra le buone notizie per l’Italia c’è la conclusione del caso Condor in cui ” sono stati condannati all’ergastolo 24 esponenti di regimi dittatoriali in Bolivia, Cile, Perù e Uruguay“. C’è poi “la sentenza Cucchi, dopo 10 anni di lotte nei tribunali” e “la causa civile Osman“, in cui il Tribunale di Roma dichiara illegali i respingimenti degli immigrati e che è stata “uno dei nostri esperimenti di contenzioso strategico”. Sono questi i tre casi positivi citati da Amnesty che, però, sottolinea i problemi di “una giustizia che impiega una quantità di anni mastodontica. Quarant’anni nel caso Condor e dieci per Cucchi e Osman”.
Il Covid usato come scusa per limitare libertà
Il prolungarsi dello stato d’emergenza in diversi Paesi e il conseguente accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo ha provocato, tra le altre cose, anche nuove gravi violazioni alle libertà individuali. “Arresti di giornalisti e blogger in una ventina Paesi – si legge nel report – Divieti di manifestazioni pubbliche con la giustificazione dell’epidemia ed uso della forza per reprimerle. Concessione in tutti i Paesi di poteri speciali talvolta a tempo illimitato ai governi per la gestione dell’epidemia. Sospensione delle elezioni come anche in Italia” per le Regionali. Strumento quest’ultimo talvolta utilizzato “per perpetuare al potere governi”. Ma anche la “limitazione dei diritti religiosi” in cui “tracciare il confine tra necessità e strumentalizzazione è molto difficile. Maggiore sorveglianza dello Stato, violazione della legge sulla privacy. Irrigidimento delle frontiere“.
Tra i Paesi Ue, limitazioni particolarmente gravi dei diritti umani ed episodi di abuso di potere da parte delle forze dell’ordine si sono registrati, come raccontato anche da Ilfattoquotidiano.it, in particolar modo in Ungheria, fin dalla dichiarazione dello stato d’emergenza, l’11 marzo, e soprattutto con il conferimento al primo ministro, Viktor Orbán, dei “pieni poteri” da parte del Parlamento. Il focus di Amnesty si è concentrato in particolar modo sulle discriminazioni di genere sul posto di lavoro.