Repubblica attraversa la crisi più forte dalla sua fondazione e Eugenio Scalfari minimizza. Accadono fatti importanti: defenestrazioni, assemblee, proteste, Enrico Deaglio e Gad Lerner lasciano il giornale, altri ci pensano, Michele Serra sente il bisogno di motivare la sua permanenza. Si discute. E Scalfari sminuisce; ignora le critiche. Anni fa mi disse: “Se dialogo coi giornali più piccoli li innalzo al livello di Repubblica. Non lo farò mai.”
È una scelta. Ma oggi la situazione è diversa e i lettori l’avvertono; il direttore è cacciato in malo modo come accadeva al Corriere negli anni più bui, c’è incertezza, un clima padronale, grandi firme scappano: non si può far finta di nulla senza offuscare una certa idea di giornale e l’etica della responsabilità.
Ricordo una sera a cena con Scalfari a Torino; seduti di fronte a noi, a tavola, c’erano Piergiorgio Odifreddi e Alessandro Baricco. Quest’ultimo raccontò con eleganza, “giocando”, da grande affabulatore, quanto gli piaceva vedere i suoi romanzi tradotti in inglese, negli scaffali delle librerie di New York: “peccato – aggiunse – che fossero più numerosi i libri di Umberto”.
Parlava di Umberto Eco, naturalmente, e il tono ironico si trasformò in risata. La serata ebbe anche momenti seri quando si parlò di etica, democrazia e responsabilità: tutti riconoscemmo in Repubblica il luogo in cui, più che altrove, questi principi venivano difesi. È ancora così?
In verità il clima è mutato, e Scalfari dovrebbe tutelare meglio le sue storiche convinzioni; John Elkann comanda, un gesto etico sarebbe lasciare Repubblica per difendere una certa idea di giornale. Una testimonianza che segnerebbe un limite, definitivo, tra giornalismo libero (rivendicato nelle assemblee sindacali) e finte libertà “concesse” dal padrone.
Conosco l’argomento di Serra: “Non ho il polso del ‘corpo vivo’ del giornale, dei malumori… Ma ci siamo parlati molto… dopo il licenziamento, traumatico nei tempi e nei modi, di Carlo Verdelli, e dopo l’addio di Lerner. Ha prevalso l’opzione ‘Repubblica siamo noi'”. Scalfari condivide questa tesi e ha tutto il diritto di farlo, naturalmente; ma anche noi di porgli alcune domande: pensa davvero, il Fondatore, che bastino generiche affermazioni di continuità, e qualche “pezzo” fuori dal coro, per garantire libertà e pluralismo nel giornale; mentre i direttori cadono come birilli, gli interessi di Fca oscurano la linea liberal-socialista, i capitali della proprietà vengono protetti nei paradisi fiscali; mentre il giornale – nel taglio, nell’impostazione, nelle notizie censurate e in quelle amplificate – di fatto vira verso destra? Certi metodi “mal si conciliano – dice Gad Lerner – con un giornale d’opinione”.
Serve riflettere su una frase di Italo Calvino (è in Palomar, libro che andrebbe riletto con più attenzione): “La vita d’una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme”. È così. Certe imposizioni (e non penso solo alla defenestrazione di Verdelli) non si accettano; nemmeno, o soprattutto, se si è raggiunta una veneranda età.
Capisco la stanchezza, la voglia di minimizzare, ma a un certo punto si può dire anche basta. Il 2 giugno la destra è in piazza. E cresce nel Paese. Siamo sicuri che la linea politica di Repubblica rappresenti il giusto argine? Quanti errori! Si avallano anche coi silenzi. Maurizio Molinari che “dimezza” in prima il tuo editoriale, Eugenio, non è un buon segnale. A Calvino non sarebbe piaciuto e ti avrebbe invitato a riflettere. Io l’ho appena fatto, col rispetto che meriti.
Ascolterai? Non sottovalutare l’amato Voltaire: “Gli uomini sbagliano, i grandi uomini confessano di essersi sbagliati.”