La stanza dei canarini (Bompiani) inizia facendoti ridere. Ridere a crepapelle. La stanza dei canarini si conclude facendoti piangere. Piangere come una fontana. Ora, non sappiamo quale sia il dio della letteratura che ha partorito Giulia Contini (o chi diavolo sia realmente, visto che è uno pseudonimo). Ma sappiamo bene che ha partorito una scrittrice di rango elevatissimo. Un’autrice che maneggia ritmo e struttura del racconto (poi c’è anche molto altro, sia chiaro) come se scrivesse dalla notte dei tempi. Una scrittrice che si preoccupa di entrare sottopelle. Di togliere lentamente ogni difesa del lettore con l’autoironia e poi di penetrarlo come una freccia imbevuta di senso del tragico. Il racconto è scritto in prima persona, la protagonista si chiama pure Giulia Contini in un baluginante effetto sdoppiamento biografico. La storia si svolge dagli anni novanta fino ai giorni nostri in un qualche non ben specificato paesino della provincia laziale-abruzzese (ma potremmo sbagliarci). E così se il romanzo prende lo slancio come fosse una buffa iniziazione alla vita di una ragazzina che improvvisamente diventa adolescente, dallo scopone scientifico al burraco (per stare sulla battuta, tra le tante, del libro), dall’essere spettatrice di dinamiche altrui al far percepire i propri impetuosi sentimenti; ecco che verso la parte centrale si entra senza troppo esibire retorica e piagnistei identitari dentro una storia d’amore totale tra Giulia, diventata suo malgrado e reticenze studentessa di liceo, e Adele, la sua professoressa di greco e latino. È qui che La stanza dei canarini prende il largo con una maestosità di scrittura che fa spavento. Perché il cuore della trama, il sentimento continuamente rimbalzato corrisposto a tratti dall’adulta verso la ragazzina, diventa un’immagine plastica, un sogno ad occhi aperti che si dilata e contrae all’infinito, dalle pulsazioni del cuore alla calma piatta della morte. Contini fa dondolare freneticamente la sua Giulia, tra sarcastica osservazione del contesto familiare e ironica introspezione. Poi decide di plasmare la struttura del testo, proprio nel suo tessuto profondo, come se il romanzo fosse una di quelle pellicole in celluloide dove si tagliano e si cuciono le situazioni, si accelera e si decelera il tempo mettendolo anche clamorosamente in pausa o addirittura a far nuovamente rigirare una “sequenza” ma con esito differente. Infine, quando tutto sembra scemare, ricomincia il capitolo secondo e la “stanza dei canarini” viene come demolita da un’improvvisa età adulta che è un’esplorazione delle radici di una passione nonostante la vita, nonostante il mondo. Per intenderci: noi abbiano letto in fila tutti i 101 “parlami” che Contini agglomera a pagina 80 come fosse un Aldo Nove del nuovo secolo. Voto: 8