Appena usciti dalla quarantena, migliaia e migliaia di italiani si sono messi in fila davanti ai negozi di bicicletta: è stato un vero e proprio boom, e l’annuncio di un piccolo incentivo governativo ha dato un’altra spinta. Adesso, anche volendo, è persino difficile trovare una normale bicicletta da comprare, e non parliamo poi nemmeno dei giorni di attesa che si devono pazientemente sopportare per farsi aggiustare un freno o una camera d’aria, se uno recupera qualche “ferro vecchio” in cantina.
Di questa rivoluzione ciclistica post-Covid s’interessa per davvero giusto il solito – e lodevole – ministro Sergio Costa, che si continua a sbracciare per racimolare qualche risorsa in più per il bonus bicicletta, ancora con l’intervista al Fatto il 6 giugno, esattamente come qualche giorno fa alla Gazzetta dello sport, dove ha ricordato anche che, per quanto pochi, sono stati garantiti pure 310 milioni di euro ai Comuni per le nuove piste ciclabili.
E invece, nonostante la grandissima quantità di miele ambientalista versato con ipocrisia dai grandi media in occasione della Giornata Mondiale sulla bio-diversità, gli interessi forti premono, pressoché all’unisono, per rinnovare con altre montagne di denaro pubblico il modello crescita-urbanizzazione-automobilità che divora il pianeta da decenni. I piazzali dei concessionari e delle aziende sono piene di automobili inquinanti non vendute: questo sembra essere il problema economico e sociale decisivo, addirittura su scala europea.
Ci si accapiglia, in Germania come in Italia, per decidere se e come far ripartire l’automotive con i soldi degli Stati, mantenendo però un minimo di decenza ecologista (la Francia ha già risolto il problema graduando gli incentivi a scalare partendo da quelle elettriche, le più premiate dagli aiuti). Francesi e tedeschi, tra l’altro, cominciano a guardare decisamente verso la Cina per essere protagonisti di un’eventuale svolta elettrica: la Volkswagen, per esempio, ha appena compiuto il passo storico d’entrare come partner strategico in due aziende statali cinesi dell’e-mobility.
Quel gran furbacchione del sindaco di Milano, Beppe Sala, prima è riuscito addirittura a far annunciare da un tweet di le nuove piste ciclabili e la nuova mobilità dolce di Milano: ma, appena fatte tirare giù sull’asfalto quattro righe bianche con i simboli dell’omino sulle due ruote lungo la direttrice Loreto-centro, si è subito precipitato a far aggiungere 6 milioni di euro dalle casse del Comune per far cambiare l’auto vecchia ai milanesi – che godrebbero comunque anche degli incentivi statali per i modelli elettrici -, allargando la gamma alle auto ibride (benzina e diesel), bifuel (metano e Gpl) e pure a benzina Euro 6. Il nuovo manifesto “salista” s’intitola “Società: per azioni”, peccato che siamo ancora e sempre alle automazioni…
E dire che ci può salvare solo una nuova idea di città, come ha spiegato molto bene Stefano Mancuso, botanico di fama mondiale, in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, ricordando che più dell’80 per cento della popolazione in Europa e negli Stati Uniti vive nei centri urbani – con i rischi connessi, vedi la pandemia Covid -, e che le nostre città consumano il 70/75 per cento delle risorse naturali, inquinano in misura analoga l’aria d’anidride carbonica e accumulano altrettanti rifiuti.
Un disastro che ha un solo mandante, il cosiddetto Pil: gli ultimi dati disponibili, del 2008, ci dicono che a fronte di un più 10 per cento di urbanizzazioni si è prodotto un incremento enorme, superiore al 60 per cento, della crescita economica nelle stesse aree. Ed è chiaro a tutti che per tracciare una “nuova idea di città” non bastano i boschi verticali sui grattacieli di lusso: non basta nemmeno la partita decisiva del verde, tanta cara giustamente a Mancuso, senza una lotta al traffico automobilistico e una vera svolta alla mobilità urbana dolce.
Ancora, giusto per restare sul tema economico, ci si premura di fornire miliardi di risorse ai soliti grandi gruppi automobilistici e si dibatte magari accanitamente sulla proprietà transnazionale e sulle alleanze mondiali degli stessi. Viceversa nessuno si preoccupa più di tanto se la nostra industria della bicicletta sta subendo una sorta di secondo storico processo di smantellamento e trasferimento all’estero delle proprietà, oltre che di gran parte delle lavorazioni: certo non è un settore fatto di grandi fabbriche, ma di circa 250 piccole realtà produttive, molte delle quali d’eccellenza.
Se prendiamo anche solo il segmento più alto del mercato delle biciclette, in grande spolvero da alcuni anni a partire dai modelli da corsa e poi via via con le varie elettriche e gravel, dopo Pinarello è appena caduto un altro glorioso marchio italiano, Colnago, appena finito in mani arabe. Dopo questo strano “dopoguerra covidico”, i tanti italiani che hanno riscoperto la passione per le due ruote punteranno il dito contro i nuovi “Ladri di biciclette” che si notano subito in mezzo alla classe dirigente del Paese.