George Floyd è stato ammazzato il 25 maggio. Le proteste, scoppiate a Minneapolis, si sono diffuse in tutti gli Stati Uniti e continuano a crescere in queste ore. Quello che poteva diventare l’ennesimo episodio di violenza ai danni di un afroamericano da parte della polizia si è trasformato, in meno di due settimane, in un evento che trasforma la politica e i rapporti razziali negli Stati Uniti e i cui effetti si iniziano a vedere già da adesso.
LO SCONTRO ISTITUZIONALE – In questi tre anni e mezzo di mandato, i militari hanno guardato a Donald Trump con un misto di preoccupazione e tolleranza. Preoccupazione per lo stile poco convenzionale del presidente. Tolleranza perché, nonostante tutto, Trump ha generosamente aumentato il budget del Pentagono. In una prima fase i militari si sono sistemati nei posti fondamentali dell’amministrazione. James Mattis alla Difesa, Michael Flynn alla U.S. National Security, John Kelly chief of staff e così via.
La fase della collaborazione – anche faticosa – si è chiusa quando Trump ha chiesto l’intervento dell’esercito per sedare le proteste. Di fronte al rischio di far perdere ai militari il loro ruolo tradizionalmente apolitico, la sollevazione dei generali è stata immediata. Proprio James Mattis, che ha lasciato il Pentagono a fine 2018, ha bollato le azioni di Trump come “abuso di potere”, aggiungendo che l’attuale presidente è il primo nella storia “che cerca di dividere, e non unire, il popolo americano”.
Presa di posizione feroce da parte di John Allen, ex-comandante delle forze americane in Afghanistan: “Non è stato sufficiente che dimostranti pacifici siano stati privati del loro diritto a manifestare – ha scritto – La foto di Trump con la Bibbia davanti alla chiesa legittima quell’abuso con una parvenza di religione”. Categorico anche John Kelly: “Le truppe detestano” di essere impiegate per reprimere le manifestazioni. Ed è stato ancora un generale, Mark Milley, chairman del Joint Chiefs of Staff, a dire no a Trump quando questi ha tirato fuori l’Insurrection Act del 1807 per giustificare l’intervento delle truppe contro chi protesta.
Se a questo aggiungiamo le parole di Art Acevado, il capo della polizia di Houston che ha detto di parlare a nome di tutto il corpo e ha chiesto a Trump di “starsene zitto, a meno che non abbia qualcosa di costruttivo da dire”, la conclusione appare significativa e per certi versi sconvolgente. Una parte importante dei corpi che negli Stati Uniti devono assicurare l’ordine e la sicurezza sono in aperta opposizione alla volontà del loro commander-in-chief.
IL DISORIENTAMENTO DEI CONSERVATORI – In questi anni i Never Trumpers, i conservatori che nel 2016 hanno preso posizione contro Trump, sono diventati un ricordo pallido. Il partito repubblicano, e buona parte del mondo conservatore, si sono allineati diligentemente dietro al presidente che ha assicurato tagli alle tasse, nomine di giudici conservatori, crescita economica.
Anche questa fase è chiusa. Probabilmente scottati dalla gestione discutibile della crisi del Covid-19, molti esponenti della destra americana hanno preso le distanze da Trump dopo l’esplosione delle rivolte per Floyd. C’è su questo un episodio emblematico. Ted Cruz, senatore repubblicano, è andato nella trasmissione di Fox News condotta da Tucker Carlson, uno degli anchormen preferiti dal presidente, e ha detto che la morte di Floyd è “un atto terrificante di brutalità poliziesca”. Di fronte a Carlson, che lo incalzava dicendo che opporsi alle violenze dei manifestanti è “un atto di civiltà”, il senatore del Texas non ha mostrato tentennamenti: “Abbiamo un video di quanto successo. E quello che vediamo è sbagliato”.
Monolitici nel loro appoggio alle posizioni di Trump, che ha definito i manifestanti “feccia” e “thugs”, teppisti, sono rimaste le voci più estreme e spesso screditate della destra americana: per esempio Drudge Report, oltre ad alcuni fedelissimi come appunto Carlson, Laura Ingraham e Sean Hannity. Per il resto, larga parte del mondo repubblicano e conservatore ha assistito con fastidio all’escalation di insulti e appelli alla militarizzazione del conflitto da parte di Trump. Il presidente “dovrebbe cambiare tono” ha detto John Cornyn, senatore del Texas e tra i repubblicani più influenti. “Da costa a costa, gli americani sono addolorati e disgustati per gli omicidi di cittadini neri”, ha affermato il capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell. E Lisa Murkowski, una senatrice moderata dell’Alaska da sempre poco in sintonia con la Casa Bianca, ha detto che, dopo quanto successo, a novembre potrebbe non votare Trump. Mancato sostegno dichiarato anche dall’ex presidente repubblicano George W.Bush, dal senatore ed ex candidato alla presidenza, Mitt Romney, l’ex segretario di stato americano Colin Powell e anche la vedova dell’ex senatore del Grand Old Party, John McCain, Cindy.
Persino il fedelissimo dei fedelissimi, Rush Limbaugh, l’esplosivo radio-host cui Trump a febbraio ha consegnato la “Medal of Freedom”, in questa occasione è sembrato prendere le distanze dalla casa Bianca. Una cosa appare certa. Trump soffia sulle paure della “maggioranza silenziosa” e cerca il voto dei bianchi moderati, un po’ come fece Richard Nixon per vincere le elezioni del 1968. A buona parte del mondo conservatore l’idea di una nuova crociata razziale non piace. L’isolamento del presidente, simboleggiato visivamente dalla recinzione eretta in questi giorni attorno alla Casa Bianca, è presente anche dentro al suo partito.
LA SFIDA PER I DEMOCRATICI – Sembra che Joe Biden, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, parteciperà ai funerali di George Floyd a Houston. Il candidato democratico alla presidenza, come del resto il suo partito, è stato granitico nell’appoggio alle proteste per Floyd, il cui omicidio ha definito “un campanello d’allarme per l’America”. Per Biden la partita non si ferma comunque qua. Alla vigilia della campagna elettorale 2020, i democrarici devono essere capaci di accogliere nel proprio programma la rabbia e l’esasperazione di chi protesta. Devono, in altre parole, passare dalle dichiarazioni di condanna ai fatti, dando forma politica alle richieste dei manifestanti: riforma della giustizia, fine degli abusi polizieschi, reale attenzione alle vite dei neri. Al Congresso sono fermi alcuni progetti sponsorizzati dal “Black Caucus”, tra cui il divieto per la polizia di usare armi da guerra e l’obbligo per gli agenti di indossare una telecamera. Cory Booker, senatore nero del New Jersey, pensa a una legge che cancelli l’“immunità qualificata” (la misura che consente agli agenti di evitare, se non in casi estremi, le cause in tribunale). E molti sindaci democratici chiedono ai loro Dipartimenti di polizia di rivedere le regole sull’uso della forza.
La domanda è: basterà? Che cosa di tutto questo si tradurrà in concreto movente all’azione? Biden e i democratici sanno una cosa: a novembre non si vince senza un’ampia mobilitazione al voto dei neri. Restare confinati allo sdegno delle dichiarazioni di rito potrebbe essere, per il partito, il peggiore dei rischi.
IL RITORNO DI BLACK LIVES MATTER – “Sette anni fa, eravamo considerati troppo radicali, troppo al di là di quanto considerato possibile”. Lo ha detto in questi giorni Alicia Garza, l’attivista che nel 2013 coniò su Facebook la frase sulle “vite dei neri”. Nato in quell’anno – ai tempi delle proteste per l’assassino di Trayvon Martin – e restato in gran parte un movimento diffuso, senza capi né struttura, Black Lives Matter guida le dimostrazioni di questi giorni, ma in un contesto completamente diverso.
Allora, nel 2013, il movimento nasceva per impulso di una generazione di giovani neri che rigettava la gestione paternalistica, spesso troppo timida e subalterna, dei loro padri. Dopo Trayvon Martin sono venuti tanti altri neri ammazzati senza motivo, da Michael Brown a Eric Garner, Freddie Gray, Philando Castile, Alton Sterling e decine di altri. Black Lives Matter è sempre stato presente alle proteste ma in una dimensione che, col passare degli anni e il triste ripetersi delle morti, sembrava aver perso molto dell’iniziale efficacia.
In realtà, il messaggio ha finito per risuonare ben oltre i confini e il destino del movimento stesso. L’ascesa di una classe nuova di politici afroamericani, soprattutto al Sud (un caso per tutti, Stacey Abrams) e la diffusione di una nuova coscienza dei diritti delle minoranze, soprattutto negli anni difficili di Donald Trump, ha cambiato lo stato delle relazioni razziali. Oggi Black Lives Matter partecipa alle proteste post-Minneapolis insieme ai gruppi anti-razzisti, al sindacato, alla Naacp e alle migliaia di persone senza particolare affiliazione, semplicemente sconvolte dalla sorte di George Floyd. Non c’è però più nessuno, tra i democratici, che definisce “radicali” le richieste di Black Lives Matter. E persino una parte del mondo conservatore è disposto ad ascoltarle. Se il movimento non ha vinto in termini di potere, a Washington, si è aggiudicato la battaglia più importante. Quella culturale.
LA FORZA DELLA REALTÀ – L’omicidio di George Floyd assomiglia ad altre decine di assassinii di neri in questi anni: assenza di un motivo, brutalità della polizia, cellulari dei passanti che riprendono la scena. In questo caso, però, c’è qualcosa di più e cioè l’assoluta indifferenza con cui Floyd viene ucciso. Il senso di impunità dell’agente che tiene il suo ginocchio premuto. Il disinteresse che gli altri poliziotti mostrano verso la sorte di un uomo indifeso, che sta morendo. Nell’omicidio di George Floyd, con un’evidenza terribile e insensata, c’è la negazione dell’umanità del nero americano. L’agente preme sul collo di Floyd come se sotto non avesse un uomo, ma un oggetto. È questa evidenza terribile che nutre le proteste, insieme all’esasperazione per le morti del passato, per la miriade di piccole umiliazioni quotidiane, per i numeri della vita dei neri d’America.
I neri sono incarcerati con una percentuale cinque volte superiore a quella dei bianchi. L’88% delle persone fermate dalla polizia sono di colore. Il 15% degli studenti americani sono neri, ma gli studenti neri sono il 36% degli espulsi da scuola. I neri hanno il doppio di possibilità dei bianchi di essere disoccupati. I neri morti per Covid-19 sono tre volte i bianchi. È allora, semplicemente, la realtà dell’esclusione che esplode davanti agli occhi degli americani oggi, con una forza che nessun ginocchio premuto può più sopprimere.