“La signora non mi ha dato l’ultimo stipendio. Ha detto che non poteva neanche pagarmi il biglietto aereo per tornare a casa. Mi ha lasciato qui [di fronte al consolato d’Etiopia a Beirut]. Un poliziotto mi ha vista piangere, gli ho spiegato tutto, si è fatto dare il telefono della signora. Lei è tornata ma solo per ridarmi il passaporto. Qui non mi aiuta nessuno”.
Sono le parole di Makda, una collaboratrice domestica immigrata in Libano dall’Etiopia. Fa parte di 144.986 donne etiopi registrate ufficialmente presso il ministero del Lavoro. Il numero di quelle che lavorano in condizioni di irregolarità non è noto.
Sarebbe meglio dire, lavoravano. Perché dopo aver stirato, lavato, cucinato, pulito pavimenti e sederi ed aver preso spesso un sacco di botte, è arrivata la crisi economica seguita dalla pandemia da Covid-19. E dunque, tanti saluti.
Il contratto unico che regola l’impiego di lavoro domestico migrante prevede che alla fine del rapporto di lavoro sia pagato un biglietto aereo per tornare a casa, ma tutte le donne etiopi con cui Amnesty International ha parlato nelle ultime settimane hanno riferito di non averlo ricevuto, così come l’ultimo mese di stipendio.
Così molte di loro si sono ritrovate senza soldi e senza tetto di fronte al consolato d’Etiopia. Visibili ma invisibili allo stesso tempo. Il 1° giugno un funzionario del ministero del Lavoro ha risposto ad Amnesty International di non essere a conoscenza della situazione e che si sarebbe indagato al più presto.
Davanti al consolato d’Etiopia fanno la fila anche molte lavoratrici irregolari che chiedono un aiuto almeno per acquistare il biglietto aereo: un volo da Beirut ad Addis Abeba costa oltre 600 euro.
Nonostante le ripetute richieste di Amnesty International, dal consolato non hanno fatto sapere se stessero fornendo qualche tipo di assistenza ai loro connazionali.