Premetto che non so ballare. Non accolgo perciò come un affronto personale il divieto di ballo nelle discoteche, vario e variegato lungo la penisola. Questo segnale, però, testimonia come la tristezza da emergenza virale non sia affatto finita.

Un mese fa, Wuhan ha festeggiato a la fine del rigoroso confinamento sanitario scatenandosi nel ballo. Centinaia di giovani, tutti in mascherina, hanno danzato fino a notte fonda sulle sponde del Fiume Azzurro che attraversa la città. Assieme a dance music e pop giapponese sparati a tutto volume e danzati rigorosamente in gruppo, non sono mancati i balli di coppia, pseudo-valzer e mazurke e perfino rock’n’roll, che hanno impegnato fino a notte fonda coppie di “congiunti” con la maschera d’ordinanza sul volto.

Fine della sofferenza collettiva, sollievo dal disastro, voglia di futuro hanno spesso scatenato la passione per il ballo. Dopo la caduta dell’armata del Faraone, “Miriam, la profetessa, sorella di Aaronne, prese in mano il tamburello, e tutte le donne uscirono dietro a lei coi tamburelli e con danze” (Esodo 15:20). E non è l’unico episodio biblico. Le Gimnopedie furono introdotte a Sparta dopo la battaglia dei campioni e una filosofa americana ha perfino consigliato il ballo per aiutare i bambini acombattere l’impatto della pandemia del Covid-19.

Il sole indugiava ancora all’orizzonte e le rondini garrivano nel cielo del Castello che già le avanguardie del pubblico affluivano verso i viali del Parco…”. Così il Corriere d’Informazione del 15 luglio 1945 informava i lettori del grande ballo collettivo che aveva conquistato Milano il giorno prima. Migliaia di persone avevano invaso la città al suono di nove orchestre, prima fra tutte quella jazz di Gorni Kramer. Le sette piste da ballo di Parco Sempione avevano gemmato iniziative spontanee che si erano diffuse a cascata in ogni piazza e in ogni strada, al ritmo di una moltitudine di improvvisate bande musicali.

Era la Festa della Fraternità organizzata dal sindaco Antonio Greppi tra Parco Sempione e Castello Sforzesco. La fine della guerra e la libertà dalla dittatura venivano celebrate in una giornata particolare: 14 luglio 1945, anniversario della presa della Bastiglia del 1789. Omaggio a una tradizione antica, solida, popolare; iniziata con la festa da ballo parigina del 1790 che fu organizzata sulle rovine della vecchia prigione.

Negli anni Trenta, mio padre aveva suonato a lungo in una orchestrina jazz. Un genere poco amato ma tollerato dal regime prima delle leggi razziali e della guerra, giacché conservo una foto della sua “Jimm Jazz Band” scattata nella sala da ballo della Marina Militare a La Spezia. Aveva perfino accompagnato l’esordio canoro di Natalino Otto, l’incarnazione dello swing italiano, quando Natalino, allora batterista, si era prestato a sostituire il cantante indisposto della Tiziana Jazz Band.

La liberazione dopo la tempesta della guerra innescò una nuova epopea di feste da ballo. Le orchestre si ricostituirono al ritmo di Sweet Georgia Brown, probabilmente la prima incisione post-bellica. Mio padre indossava il vecchio smoking, opportunamente rivoltato. Suonava in sale un po’ rappezzate ma affollatissime. Il repertorio di fox-trot e swing si era arricchito del boogie-woogie che aveva conquistato gli italiani grazie ai “V-disc”. E la gente aveva subito accantonato i balli di origine contadina, promossi dal fascismo in ossequio all’autarchia, non solo al tempo del jazz, ma anche scoprendo nuovi ritmi latini e afro-cubani.

Gli anni che seguirono la prima guerra mondiale (15 milioni di morti in Europa) e la successiva influenza spagnola (50 milioni di morti nel mondo su una popolazione di 2 miliardi) furono anni ruggenti: l’età del Jazz. Charleston, slow fox-trot e quickstep conquistarono l’America e furono presto popolari anche in Europa. La charleston-mania divampò in Italia al ritmo di “Yes sir! That’s my baby” (Lola, cosa impari a scuola). E mi ritorna spesso in mente il ritornello di Swanee, un ragtime-fox-trot scritto da George Gershwin: uno dei primi 78 giri ascoltati da bambino.

La gente anela a superare la crisi del Covid-19 al più presto ma con sentimenti contrastanti. Vorrebbe un mondo migliore di quello in cui l’umanità si è prostrata a una catastrofe annunciata ma non prevista, che ha colto tutti inermi e impreparati. Nello stesso tempo, la gente materializza il concetto di rinascita nel ritorno puro e semplice, rassicurante e consolatorio al passato prossimo.

Negli ultimi anni la gente ha ballato sempre meno, come lamenta un amico musicista che vive dei diritti della sua musica da ballo suonata “live” da orchestrali in carne e ossa. Non sarà vera rinascita se i giovani non torneranno a ballare. E lo faranno con gioia e in allegria solo se il mondo sarà un po’ migliore o, almeno, saranno autorizzati a sperare che lo diventi. C’è bisogno di un pianeta meno egoista, perché l’impatto delle crisi pandemiche è un piccolo antipasto di quello che potrebbero generare le crisi climatiche dei prossimi anni.

Prometto che imparerò a ballare.

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