“Rivendico assolutamente la correttezza dell’operato che è stato svolto dalla direzione generale, in un contesto epidemiologico che non è paragonabile a quello di altre realtà. Sulle polemiche e sulle voci non mi pronuncio e non compete a me pronunciarmi”. Era il 27 maggio scorso e Luigi Cajazzo, il direttore generale della Sanità lombarda, rispondeva così durante l‘audizione in commissione regionale alla domanda del consigliere regionale del Pd Samuele Astuti sugli articoli di stampa secondo cui i vertici della stessa direzione sarebbero messi in discussione e indicati come i responsabili di ciò che è accaduto in Lombardia, la regione più colpita per morti e contagiati in Italia e con pochi termini di paragone con altre aree del mondo. “Io faccio il direttore generale non faccio attività politica. Non ho letto di quanto lei riferisce, ne prendo atto. Per quanto ci riguarda noi abbiamo svolto un lavoro tecnico che io difendo e di cui sono assolutamente orgoglioso, con una squadra di persone che si sono dedicate anima e corpo a questa emergenza, in qualche caso rischiando di persona”. Ebbene da ieri Cajazzo non è più dg come riporta il Corriere della Sera.
Il dg “promosso” dal governatore Fontana – Il dirigente, che sembrava intoccabile, fino a qualche settimana fa, è stato sostituito dal presidente della Lombardia, Attilio Fontana, che dopo aver difeso anche lui a spada tratta la gestione dell’epidemia che vede la regione ancora in questi giorni ai vertici delle statistiche, ha cominciato parzialmente a fare mea culpa. Del resto anche il governatore ha i suoi guai con l’affaire dei camici. Alla guida del comparto, arriverà Marco Trivelli, 56 anni, manager storico della sanità Lombarda. L’ex poliziotto della Mobile di Lecco, che siedeva sulla poltrona di direttore generale da maggio 2018 è destinato ad altro incarico. Cajazzo, comunque, diventerà vice segretario generale della Regione con delega all’integrazione sociosanitaria. Potrebbe sembrare una tipica azione promoveatur ut amoveatur, ma da ambienti vicini al dg si parla di “soddisfazione per il delicati e autorevole incarico che gli è stato offerto, segno del riconoscimento per quanto sin qui fatto, con professionalità e spirito di abnegazione encomiabile”.
Nelle scorse settimane Cajazzo era stato ascoltato dai pm di Bergamo e aveva messo a verbale, tra l’altro, che la decisione di riaprire il pronto soccorso della struttura il 23 febbraio, dopo l’accertamento dei primi due casi di Coronavirus, era stata “presa in accordo con la direzione generale della Asst di Bergamo Est“, in quanto era stato assicurato che era “tutto a posto”: i locali sanificati e predisposti “percorsi separati Covid e no Covid”. Una versione che però è stata smentita da un’inchiesta giornalistica del Tg1 che il 10 aprile manda in onda un servizio in cui un medico presente alla riunione del 23 febbraio racconta che a decidere fu lui: “Il 23 febbraio è arrivata la chiamata del direttore generale dell’assessorato al Welfare Cajazzo, che ha detto: non si può fare, perché c’è almeno un malato di Covid in ogni provincia, non possiamo chiudere oggi Alzano, tra due ore Cremona…Quindi riaprite tutto“.
La testimonianza del primario: “È arrivata la chiamata del dg” – Sulla gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo dopo la scoperta dei primi casi di contagio e sulla mancata istituzione della zona rossa della Bergamasca, la procura della città orobica ha aperto un’indagine contro ignoti, ipotizzando l’epidemia colposa. “Il 23 febbraio ero a una riunione con tutti primari e i capidipartimento di Alzano. Il pronto soccorso era chiuso e doveva decidere cosa fare. C’era stato Codogno due giorni prima. Tutti noi abbiamo espresso il nostro parere: l’ospedale andava chiuso. Si discuteva come fare”, è il racconto del medico al Tg1. “A un certo punto – continua – arriva la chiamata del direttore generale dell’assessoreato al Welfare Cajazzo, e dice: non si può fare perché c’è almeno un malato di Covid in ogni provincia, non possiamo chiudere oggi Alzano, tra due ore Cremona. Quindi riaprite tutto“. L’ordine, quindi, sarebbe arrivato dal cuore della Regione Lombardia. “Noi – continua il testimone – non sapevamo che Alzano sarebbe stata epicentro italiana, sapevamo solo di Codogno e quindi credevamo si dovesse fare come a Codogno”. Cioè chiudere e sigillare tutto. Ma così non è stato. Cosa hanno pensato i medici dopo che da Milano è arrivato l’ordine di riaprire il pronto soccorso? ”Siamo morti. Abbiamo pensato: se noi tecnici dobbiamo dipendere da loro, siamo morti“.
La lettera del direttore: “Serve intervento urgente” – Dopo tre giorni metà delle persone presenti a quella riunione si è ammalata. Ventiquattro ore prima, invece, il direttore dell’ospedale di Alzano, Giuseppe Marzulli, scrive alla direzione generale. Una lettera ufficiale, pubblicata da Tpi, in cui il dirigente spiega che “presso il Pronto Soccorso stazionano tre pazienti senza che vengano accolti né dall’ospedale di Seriate né da altre strutture aziendali. È evidente che in queste condizioni il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo non può rimanere aperto”. In un primo momento all’ospedale è stato chiesto di attendere l’esito del tampone sui 3 pazienti. “Tale indicazione” – continua il direttore – “è assurda (ed uso un eufemismo) in quanto come noto i tempi di refertazione sono mediamente intorno alle 48 ore e ciò vuol dire far stazionare tali pazienti per 48 ore presso il Pronto Soccorso di Alzano Lombardo, cosa contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso”. Una volta sollevata l’assurdità della disposizione, ad Alzano era stato comunicato che il problema era diventato “la mancata disponibilità di posti letto”. “Ritengo indispensabile un intervento urgente“, chiude la sua missiva Marzulli. Era già troppo tardi pero: ad Alzano, a Nembro, in tutta la Bergamasca, il virus aveva comniciato a fare strage. A Bergamo il 26 febbraio c’erano “solo” 20 casi che però diventano 72 il giorno dopo, quasi quattro volte in più. Si passa a 103 il 28 febbraio, il 1 marzo raddoppiano a 209, poi 243 e in pochi giorni il focolaio si espande inarrestabile. Così inarrestabile che per poter cremare i deceduti il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ha dovuto chiedere aiuto ad altre città e regioni.
Diverse le inchieste in Lombardia – L’indagine di Bergamo è una delle inchieste aperte dalle procure lombarde sull’evoluzione del contagio da coronavirus. Il procuratore generale di Brescia, Guido Rispoli, nel cui distretto di Corte d’Appello ricadono diverse procure lombarde, ha spiegato nelle scorse settimane che i fascicoli sono “eterogenei” – cioè che vi sono anche quelli contro ignoti, quelli relativi a fatti non costituenti notizie di reato e quelli riguardanti esposti anonimi – e ciò dipende dalle “modalità di formulazione delle ‘notizie’” pervenute alle procure. In alcuni fascicoli, invece, ci sono già indagati. Non sarebbe il caso delle inchieste aperte nella procura di Brescia, ma in altre del distretto che comprende le procure di Cremona, Bergamo e Mantova. Nelle numerose denunce presentate alle procure del distretto di Corte d’appello sono segnalati anche “rappresentanti del Governo e della Regione”, ha aggiunto Rispoli. Gli amministratori regionali vengono citati in riferimento alle delibere dell’8 marzo scorso con cui si chiedeva alle Rsa di istituire dei reparti Covid-19 e alla mancata istituzione della ‘zona rossa’ nei comuni di Alzano Lombardo e di Nembro. Il magistrato ha fatto il punto sulle indagini e sulla loro complessità sottolineando che altre denunce riguardano “organi di gestione” di ospedali e Rsa e “personale sanitario e infermieristico a vari livelli”. In ogni caso, Rispoli ha ricordato che l’iscrizione nel registro degli indagati “non comporta in alcun modo una valutazione di responsabilità della persona iscritta” che “si compie solo alla fine delle indagini”. E oggi a Bergamo i familiari delle persone morte nelle rsa hanno presentato alla procura di Bergamo le prima 50 denunce.