La variabile decisiva nella partita dell’Ilva è diventata il tempo. Il governo ha bisogno di arrivare al momento in cui saranno sicuri, certi e pianificati i fondi europei per il Green Deal. E ci vorranno molti mesi, sempre che i soldi alla fine siano sufficienti. Per dirla con le parole del ministro Roberto Gualtieri, “non esistono soluzioni semplici”. ArcelorMittal sta comprando il tempo che le serve a suon di rilanci al ribasso sui livelli occupazionali, spostando le lancette dell’orologio del suo passo d’addio un po’ più in là, sperando di arrivare nella posizione ottimale a fine novembre, quando potrà riconsegnare le chiavi pagando 500 milioni di euro. I sindacati dicono che tempo non ce n’è più, perché – come hanno spiegato Fiom e Uilm a Ilfattoquotidiano.it – con gli impianti di Taranto in marcia al minimo (7.500 tonnellate di acciaio al giorno, mai così poche nella storia dell’ex Italsider) la più grande acciaieria d’Europa, nel giro di sei mesi, vedrà compromessa la sua funzionalità.
Nello stallo c’è poi la variabile degli operai, stremati da dieci anni di promesse liquefatte, tagli, sacrifici e incertezze. Una “bomba sociale”, l’ha definita il segretario della Uilm Rocco Palombella in faccia al governo martedì mattina. Un incontro teso durante il quale la leader dei metalmeccanici della Cgil Francesca Re David ha avvisato i ministri di come stia diventando difficile anche per i sindacati incanalare la rabbia della base, a maggior ragione se i rappresentanti dei lavoratori vengono convocati ai tavoli solo per trattare sulla portata di licenziamenti e cassa integrazione. Nel vertice Gualtieri, Patuanelli e Catalfo hanno chiesto un’altra settimana per rivedersi e “trovare una soluzione”. Sette giorni o giù di lì per un faccia a faccia a tre con l’azienda, non convocata all’incontro perché il piano da 5mila esuberi tra uscite e mancati reintegri “non era neanche da discutere”, ha tenuto a precisare il ministro dello Sviluppo Economico.
Governo e lavoratori sono sulla stessa linea almeno su questo, ma divisi su tutto il resto. Gualtieri a fine maggio aveva definito “ragionevoli” i dieci giorni di tempo chiesti dall’ad di ArcelorMittal, Lucia Morselli, per presentare un piano industriale previsto dall’accordo del 4 marzo che ha sventato il primo tentativo di fuga della multinazionale. Di fronte a una strategia fatta di richieste di soldi pubblici in cambio di nuovi tagli dei livelli occupazionali e numeri finanziari “estremamente sintetici”, come ha spiegato il commissario straordinario Alessandro Danovi, il numero uno dell’Economia ha dovuto ammettere che il futuro dell’Ilva disegnato dai manager londinesi straccia di fatto il contratto firmato neanche due mesi fa.
Detto delle critiche messe in fila durante la riunione di martedì (inaccettabile, inadeguato e spropositato, non soddisfacente e non realizzabile, sono stati gli aggettivi pronunciati), il governo – al di là della scarsa sintonia sul dossier tra Tesoro e Mise – ha una sola strada da poter seguire: convincere ArcelorMittal a restare a Taranto entrando nel capitale con una controllata e garantendo di fatto il futuro dell’acciaieria dalla quale dipendono 10.700 posti di lavoro diretti e migliaia di indiretti tra indotto, appalti e subappalti. Sul piatto è pronto a mettere un “coinvestimento”, la “transizione ecocompatibile” perché, lo ha spiegato Patuanelli, “oggi abbiamo la possibilità, mai avuta prima, di mettere in campo importanti investimenti” grazie al Green Deal europeo e il sostegno alla domanda di acciaio partendo da automotive e Sisma bonus.
Siccome un piano B non c’è perché non esistono alternative tra i player internazionali – Jindal fatica già a Piombino, ThyssenKrupp sta mollando Terni – bisognerà capire se ArcelorMittal è davvero disposta ad attendere i tempi perché questa “potenza di fuoco” possa essere dispiegata e sortisca i suoi effetti alleggerendo il peso sui conti di un impianto che perde oltre 100 milioni di euro al mese. Il pallino è nelle mani del gruppo franco-indiano e c’è un pezzo del sindacato pronto a scommettere che l’azienda non arretrerà perché il vero obiettivo è portarsi in pancia il portafoglio clienti dell’ex Ilva e salutare, inondando il mercato italiano di coils prodotti all’estero.
“Si spiegherebbe così un calo della produzione attorno al 90% a fronte di una contrazione del mercato europeo a causa del Covid che loro stessi stimano attorno al 6 per cento”, va ripetendo Palombella che parla ormai apertamente di “piano di liquidazione”, “disastro occupazionale” e “scempio ambientale” alle porte. Il governo sostiene di essere pronto a tutto per evitarli e uscire dal vicolo cieco. Ma l’ultima parola resta quella di Mittal. Ammesso che sia davvero l’ultima dal 2017, quando la multinazionale vinse la gara – proprio in questi giorni cade il terzo ‘anniversario’ dell’aggiudicazione – grazie a un’offerta economica monstre che pesò più di un piano industriale che su investimenti e volumi di produzione i tecnici avevano già giudicato “incoerente” e oggi è carta straccia. I rapporti di forza si sono così ribaltati che all’epoca l’azienda era pronta a pagare 1,8 miliardi di euro per prendersi l’Ilva e oggi ne chiede su per giù altrettanti per rimanere. Almeno per un altro po’.
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