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di Massimo Virgilio
Globalizzazione. Questa parola è sulla bocca di tutti. Il suo significato ultimo, però, non è ben chiaro. “Più che una parola – sostiene il sociologo Ulrich Beck – si tratta di una nebbia, di una parola-spettro”. C’è la globalizzazione dei capitali finanziari, mai così liberi di spostarsi con incredibile rapidità da un continente all’altro, da una nazione all’altra, incuranti di barriere e di confini.
E “i processi di globalizzazione finanziaria e produttivistica e di mobilità internazionale del lavoro”, afferma Alberto Martinelli, “inaugurano un periodo di rapidi cambiamenti, di fluttuazioni, di incertezza”. C’è la globalizzazione delle scienze, dei sistemi di comunicazione e delle tecnologie. Grazie agli enormi progressi realizzati in questi campi nel corso degli ultimi decenni, l’intero pianeta non è altro che un “villaggio globale”, per usare la notissima formula di Marshall McLuhan.
C’è la globalizzazione del sistema di produzione capitalista, il quale, considerandosi l’unico capace di donare felicità e prosperità all’umanità, tende ad imporsi a livello planetario. Esso, pur di portare a termine la missione di massimizzare il profitto incrementando a dismisura la produzione e quindi i commerci, non esita a sfruttare senza posa tutte le risorse naturali, compresa la risorsa uomo, fino a depauperarle e in certi casi ad esaurirle, incurante del danno che ciò provoca all’intera popolazione mondiale.
“Il futuro dell’umanità – scrive al riguardo Piero Bevilacqua – diventa allora oggetto di discussione scientifica e di divulgazione culturale di massa. L’allarme sociale sulle possibilità di vita nel futuro comincia a insinuarsi come nuova condizione psicologica di una parte crescente dell’umanità”. Il capitalismo postmoderno, per di più, non si limita a fabbricare e vendere per profitto i propri prodotti rispondendo alla domanda dei consumatori.
Sono i bisogni stessi ad essere “fabbricati per rispondere alla domanda dei produttori che rendono commerciabili i loro prodotti direttamente, attraverso la promozione, il ricambio, la confezione e la pubblicità. La nuova economia – secondo il professor Benjamin R. Barber – si occupa di beni immateriali e servizi che hanno come destinatari la mente e lo spirito (o che mirano ad annullare la mente e lo spirito)”.
Da parte sua Beck nel volume intitolato Libertà o capitalismo distingue nettamente la parola globalizzazione dal termine globalismo. “Chiamo globalismo la dittatura neoliberista del mercato mondiale, che, in particolare nel Terzo mondo, toglie le basi – comunque precarie – dell’auto-sviluppo democratico. Io invece intendo per globalizzazione non soltanto la globalizzazione economica, ma anche quella politica, sociale e culturale”.
La globalizzazione, afferma Agostino Giovagnoli nel saggio dal titolo Storia e globalizzazione (Laterza), si rivela dunque “sfuggente, per la difficoltà di identificarne chiaramente un centro motore, un progetto ispiratore, una coerenza interna”. Se l’essenza della globalizzazione non è ben determinabile, i suoi effetti, pur se molteplici e complessi, sono invece più facilmente identificabili, giacché incidono direttamente sulla vita di ciascuno di noi.
“È largamente riconosciuta l’importanza degli aspetti economici e finanziari di queste trasformazioni” afferma Giovagnoli. “C’è accordo anche nel riconoscere una serie di conseguenze della globalizzazione, come la spinta ad organizzare le attività economiche su scala mondiale, la crescente importanza della contiguità temporale rispetto alla prossimità spaziale, cui si accompagna l’indebolimento e la ridefinizione dei confini, i condizionamenti delle imprese multinazionali o transnazionali sui Governi, le difficoltà di intervenire sui flussi migratori legati a nuove dinamiche del mercato del lavoro, i problemi per i regimi autoritari nel controllare la circolazione delle informazioni, le difficoltà di convivenza fra persone di culture diverse”.