Anche affaticato da noie di salute, seguo sempre le vicende del mio Paese, cui sono molto affezionato. Se qualcuno, nel recente passato, ha dato una scorsa ai post del mio blog sul Fatto Quotidiano (ne ho scritto per quasi tre anni, circa 100 post), ricorderà che ho sempre cercato di parlare dei problemi del nostro sistema manifatturiero, escludendo la componente manifatturiera della ‘fashion’ e del ‘food’.

Questo ‘sistema manifatturiero’ italiano cui sempre e solo mi riferisco è il contenitore più grande dei posti di lavoro e, se va in crisi, è il generatore più grande dei disoccupati in Italia. Quindi è una componente maledettamente importante per la nostra economia, per il nostro benessere, per la felicità terrena degli italiani, per quel che la felicità terrena ci possa concedere.

Tutte le mie considerazioni (e certamente non sono né poche né marginali, per quanto come tutte le proposte, discutibili) ebbero inizio quando mi accorsi, proprio nella mia carriera ventennale di consulente di direzione aziendale (dopo vent’anni di – consentitemi di dirlo – brillante carriera manageriale in grandi aziende) che in Italia era accaduto un fatto molto pericoloso.

Da Paese industriale molto importante celebre nel mondo per il made in Italy, per il suo design, per l’estro artistico-inventivo spiccato e apprezzato, nel corso dei decenni, quasi a seguito di un assopimento della sua classe dirigenziale tutta (culturale, politica, imprenditoriale, sindacale), nella concreta realtà era diventata la campionessa mondiale della ‘subfornitura’: dove il made-in-Italy, il design creativo, l’estro italiano c’entrano come il due di picche a briscola di cuori.

Io ricorro sempre alla metafora-esempio della motocicletta. A questo mondo c’è chi fa motociclette: e anche chi fa solo componenti per motociclette (magari pure superlativamente validi), che però subisce una costrizione multipla: deve vendere la sua produzione a coloro che fabbricano motociclette (quindi non a consumatori finali – end-users – ma a strutture produttive che sottopongono il malcapitato a continui confronti con la concorrenza).

Con una piccola, trascurabile differenza: che, diversamente da ciò che i produttori di motociclette fanno in termini di design, di advertising, di promotion e chi più ne ha più ne metta, non può fare nulla, ma proprio nulla in termini di uso di quella potentissima leva di business che è il marketing (all’americana).

In questa situazione, perfino il Paese del subfornitore può fare molto poco in termini di promozione nel mondo della produzione componentistica: il che, diciamocelo chiaro, è un bell’handicap. Così, zitto zitto e con colpevole ignavia, il nostro Paese è rinculato nel business manifatturiero più difficile, più controllabile, a minor tasso di profitto virtuale intrinseco che si possa immaginare.

Il successo economico-finanziario di un’impresa manifatturiera che produca un prodotto finito, reclamizzabile (tipo motocicletta: queste aziende si definiscono Oem: Original Equipment Manifacturer) è senza dubbio alcuno molto più perseguibile rispetto a quello che faticosamente e giorno per giorno un ‘subfornitore’ deve conquistarsi e mantenersi nel breve e nel medio termine.

Non ci sono discussioni: lo stato di crisi manifatturiera del nostro Paese (soprattutto pensando alla nostra struttura industriale polverizzata, piena di impianti di ogni tipo ma utilizzati solo in parte) nasce da questa assurda défaillance dirigenziale. Della quale – ma è una mia semplice opinione – sembra che nessuno se ne accorga: per quel che era la mia esperienza (e non era proprio comune e banale) ho cercato di elaborare una proposta di ‘politica manifatturiera’ e ho cercato più volte contatti con il Mise: non ho ambizioni politiche e neppure di carriera, data la mia età avanzata. Mai come risposta un silenzio più assordante.

Non ci sono scappatoie: occorre tirare fuori il nostro Paese da quel novero di business dove sempre più Paesi di peso e di crescente capacità entrano e si pongono a concorrere: Polonia, Romania, Ungheria. In questo settore non è certo la Cina che ci può mettere paura: la nostra ‘piccolezza’ è la nostra carta vincente; ma non possiamo controbattere sempre ad altri Paesi (un tempo detti ‘emergenti’) che a furia di sgomitare e con situazioni interne di minor costo (in termini di costo del lavoro, di costi ecologici, di legislazione sociale più arretrata, ecc.ecc.), beh, alla fin fine stanno emergendo.

Lo strumento per ripartire esiste: una visione meno stereotipa e vecchia del mondo del business è non solo possibile ma anche doverosa. Occorre creatività politica, personale politico non improvvisato ma preparato e sveglio, anche se siamo in condizioni difficili: ricordiamoci sempre che il piccolo Davide sconfisse il gigante Golia.

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