Per risollevare le sorti del nostro Paese non basteranno gli “Stati generali” o la “agenda Colao”, come non sono bastate le innumerevoli “cabine di regia”, o i “comitati tecnici” cresciuti come funghi dal livello nazionale a quello regionale e comunale. Tutte queste diversissime esperienze scontano limiti da affrontare urgentemente: il primo è la marginalizzazione del Parlamento e delle assemblee elettive; il secondo è l’assenza di una partecipazione dei cittadini degna di questo nome, come accade invece con il modello delle “Assemblee di cittadini estratti a sorte” che stanno prendendo piede in giro per l’Europa.
L’ammonimento evangelico “per vino nuovo, otri nuovi” andrebbe tenuto a mente dai troppi che si aspettano dalla politica una svolta per uscire dalla crisi, senza però mettere in discussione i metodi che avevano affossato l’Italia già prima del virus. C’è chi si appella alle istituzioni con manifestazioni rabbiose, chi con spirito propositivo, alcuni esacerbando le contrapposizioni, altri invocando nuove formule di unità e salvezza nazionale.
Ciò che però attori diversissimi – dagli agitatori di piazza ai felpati grand commis di Stato e d’impresa – sembrano condividere è l’idea che, se solo ricevessero i giusti suggerimenti, i nostri governanti prenderebbero decisioni nell’interesse collettivo invece di arroccarsi in difesa del potere conquistato. Coltivare questa illusione corrisponde a una ignoranza – vera o simulata – delle dinamiche del potere e della politica.
L’Italia che è entrata nella crisi da Covid19 era già un Paese zavorrato da un immenso debito pubblico, una giustizia paralizzata, un’amministrazione inefficiente incapace di spendere i fondi europei, le libertà civili ancora compresse, una politica totalmente assorbita dalla ricerca di consenso a breve. Quella situazione non era il prodotto di singole e soggettive inadeguatezze di questo o quel “leader”. Se così fosse, la loro sostituzione potrebbe magicamente portarci in una nuova era di innovazione e coraggio.
I problemi erano – e restano – invece di tipo strutturale, e prendono nomi ormai abusati e logori, ma che esprimono realtà mai superate: partitocrazia, corporativismo, giustizialismo, statalismo (nella più moderna versione di alleanza tra oligarchie statali e private), clericalismo, il tutto reso possibile dalle negazione del diritto dei cittadini a conoscere per deliberare.
Se è vero che il modello già perdeva pezzi a causa del prosciugamento delle risorse destinate ad alimentare clientele, immaginare che ora, avendo a disposizione centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica aggiuntiva, quegli stessi protagonisti – se ben consigliati – sapranno da soli invertire la rotta del Paese è davvero contro ogni logica.
Basterebbe porsi la domanda “ma se avessero voluto investire nella scuola, nel digitale, nella sostenibilità ambientale, nella sburocratizzazione, nella ricerca scientifica, nella giustizia, perché mai non l’avrebbero già fatto? Per quale motivo, avendo più soldi a disposizione che in passato, non dovremmo aspettarci che semplicemente aumenterà la quantità di risorse buttate nel pozzo senza fondo della spesa corrente improduttiva?”.
Ponendosi anche solo queste semplici domande, si arriva alla conclusione della necessità di riformare innanzitutto il processo decisionale, spezzando il monopolio oggi in mano alla saldatura tra partiti, corporazioni e lobbies, e attingendo alla risorsa della partecipazione civica, che nulla ha a che vedere – se organizzata in modo appropriato e istituzionalmente regolato – con gli astratti e demagogici richiami al “popolo”.
Il modello delle assemblee dei cittadini estratti a sorte è ciò che la scienza politica e le sperimentazioni concrete stanno sempre di più riconoscendo come strumento indispensabile non per sostituire, ma per integrare lo strumento delle elezioni, cercando di superarne limiti ormai endemici come l’orientamento al consenso di breve periodo, con le inevitabili conseguenze in termini di faziosità e demagogia.
Individuando un campione rappresentativo della popolazione e sottoponendo ciascuno dei sorteggiati a una straordinaria dose di informazione, confronto con esperti e dibattito per la ricerca di soluzioni, alla fine l’esperienza insegna che in tali contesti riescono a emergere soluzioni nell’interesse collettivo di lungo termine invece che in difesa dei privilegi di pochi.
Ecco perché se il Governo – meglio ancora il Parlamento – volessero trovare e applicare idee innovative per costruire il futuro invece di consumare il poco rimasto dal passato, dovrebbero seguire anche questa strada e convocare subito una assemblea dei cittadini estratti a sorte per affrontare le priorità di investimento per la rinascita economica, sociale e democratica dell’Italia, mettendo a loro disposizione anche il lavoro degli esperti, dei Comitati tecnici e degli “Stati generali”.
L’istituzione di Assemblee dei cittadini, a partire dal tema dello sviluppo sostenibile, è oggetto la proposta che abbiamo depositato in Corte di Cassazione con Mario Staderini e attivisti del mondo ambientalista e civico, contenuta anche in una petizione al Parlamento presentata da Lorenzo Mineo e preparata da Democrazia radicale e Eumans con la campagna “politici per caso”.