L'iniziativa chiede a chiunque sia contrario alla fornitura di mezzi militari a Il Cairo di registrare un video o scattare una foto in cui motiva la sua posizione e diffonderla sui social con l'hashtag indicato. "Non solo questa politica ha un costo in termini di diritti umani - spiegano -, ma è anche poco conveniente dal punto di vista economico. E a pagare saranno i contribuenti italiani"
Un flashmob online con l’hashtag #StopArmiEgitto per chiedere al governo italiano di frenare la vendita di armamenti al regime di Abdel Fattah al-Sisi e il rispetto della legge 185 del 1990. Norma che vieta il commercio di materiale bellico con Paesi in conflitto armato o “responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” e impone ai governi, salvo particolari obblighi internazionali con i Paesi in questione, di chiedere il “parere delle Camere” prima di autorizzare la consegna. L’ultimo esempio è la decisione presa dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che dopo una telefonata con il presidente egiziano ha dato il via libera alla consegna di due fregate Fremm per il valore di 1,2 miliardi di euro. Vendita che è parte della maxi-commessa da 9-11 miliardi ribattezzata ‘L’affare del secolo’, di cui ha dato notizia Il Fatto Quotidiano, che prevede anche la fornitura di altre quattro fregate, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346.
L’iniziativa, promossa da Rete Disarmo, Amnesty Italia e Rete della Pace, invita tutti i rappresentanti della politica, della cultura, dello sport, dello spettacolo e comuni cittadini, a registrare un video o scattarsi una foto e spiegare i motivi per cui sono contrari alla vendita di armi a Paesi come l’Egitto, usando l’hashtag e taggando i profili social delle tre organizzazioni. “L’obiettivo, oltre a quello di continuare a sensibilizzare i cittadini sul tema della vendita di armi ai regimi autoritari – spiega a Ilfattoquotidiano.it Francesco Vignarca di Rete Italiana per il Disarmo – è anche quello di informarli sul perché queste commesse devono essere fermate e sulle conseguenze politiche, economiche e legate ai diritti umani di queste scelte”. E aggiunge: “Come facciamo ogni volta, chiediamo che il governo blocchi anche quest’ultima commessa – continua Vignarca – Ma avanziamo un’altra richiesta, ossia che questo tipo di decisioni debbano ottenere, come previsto dalla legge 185/90 l’approvazione di Camera e Senato”.
A questo proposito, sui siti delle organizzazioni vengono messe a disposizione delle Faq per fornire un’informazione completa sul tema della vendita di armi all’Egitto. Nel testo dell’iniziativa si legge che sono due, secondo i promotori, i motivi per cui si deve pretendere il passaggio parlamentare: “Innanzitutto questa commessa rappresenterebbe il maggiore contratto mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra e farebbe dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani impegnando non solo l’attuale governo ma anche i futuri governi del nostro Paese. Questa è una decisione che influisce direttamente sulla politica estera e di difesa dell’Italia e, proprio per questo, non può essere considerata come ordinaria amministrazione (e quindi di mera competenza dell’Autorità nazionale Uama – Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento). Pertanto va discussa in tutti i suoi dettagli dal Parlamento”. Punto secondo: “Va inoltre considerato il ruolo che l’Egitto sta esercitando nel conflitto in Libia. L’Egitto è il principale sostenitore del generale Haftar a capo dell’autoproclamato Consiglio nazionale di transizione libico che da anni è in conflitto col governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, che l’Italia sostiene. Esportare armamenti all’Egitto significa, di fatto, fornire sistemi militari a un Paese che non solo non condivide, ma anzi avversa apertamente l’azione dell’Italia e della comunità internazionale per un processo di pacificazione in Libia”.
La campagna ricorda però che l’Italia può ancora bloccare le vendite di questi sistemi militari: “Sebbene l’esportazione delle due fregate Fremm originariamente destinate alla Marina miliare italiana pare sia stata recentemente autorizzata, è invece ancora da definire il più ampio ordinativo che comprenderebbe altre quattro fregate, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M-346. Il Governo, e in particolare il ministero degli Esteri, possono tuttora non concedere l’autorizzazione alla fornitura e all’esportazione di questi sistemi militari all’Egitto anche se sono già state autorizzate e hanno preso avvio le trattative commerciali”.
E se il capo politico del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, in contrasto con alcuni parlamentari della maggioranza, anche pentastellati, ha dichiarato che la vendita di armamenti all’Egitto non è altro che “una manovra di tipo ecomomico”, le organizzazioni sostengono che operazioni come questa siano economicamente poco vantaggiose: “Come proprio l’epidemia da Covid-19 ha evidenziato, il nostro Paese possiede un’industria militare in grado di produrre tutti i sistemi militari per fare la guerra, ma è gravemente insufficiente non solo nella produzione di materiali militari di basso costo (mascherine, camici, kit medici), ma soprattutto di apparecchiature medico-sanitarie – concludono – Anche nel caso delle due Fremm destinate all’Egitto, alla fine una gran parte dei costi graveranno sui contribuenti italiani perché la nostra Marina Militare pretenderà la sostituzione delle due unità navali che le verranno sottratte (a costi probabilmente maggiori, oltre che ovviamente con tempi più lunghi), senza contare l’esposizione finanziaria di istituti di credito italiani coperta con garanzie pubbliche (via Sace). Pensare di continuare in questo modo, incentivando la produzione militare che per due terzi è diretta al di fuori dei Paesi alleati e soprattutto nelle zone di maggior tensione e conflitto nel mondo, significa voler continuare a sostenere un settore che non solo mette a repentaglio la sicurezza e la pace internazionale, ma distoglie risorse e fondi ad ambiti, come quello sanitario, in cui l’Italia è carente e dipendente dall’estero. Inoltre molti studi di natura economica dimostrano come un investimento nel settore militare ha ritorni finanziari e di posti di lavoro molto più bassi di quanto si potrebbe ottenere con investimenti in altri settori produttivi, in particolare le energie rinnovabili, l’istruzione, la salvaguardia dell’ambiente, il welfare”.