L’immagine che più colpisce e ferisce, per chi abbia a cuore la scuola della Repubblica e individui in essa la spina dorsale del Paese, è la seguente: hanno riaperto stabilimenti balneari, centri estetici, persino palestre. Ha riaperto tutto; tranne scuola ed università.

Il Coronavirus, oltre che quella sanitaria, politica ed istituzionale, ha portato con sé la crisi culturale in cui l’Italia si dibatte, e non da ora. Destini di milioni di studenti (con il carico di diseguaglianze, diversificazione e riduzione delle opportunità, incuria per le condizioni psicologiche di destini bloccati 3 mesi fa) stanno faticosamente e volenterosamente cercando di adeguarsi ad una condizione, quella del monologo di fronte ad un computer, che deve fungere da docente ed esaminatore: roba per gente fornita di tanta motivazione e nervi saldi; il resto – soprattutto se non verrà elaborato un piano dettagliato e certo del rientro, specie negli atenei – sarà dispersione. Amen.

La scuola ancora nell’occhio del ciclone, la scuola in primo piano. E non, come sarebbe lecito pensare, per cercare di sanare le carenze che, anno dopo anno, riforma dopo riforma, si sono accumulate e che rischiano di portare alla conflagrazione del sistema, data la situazione. Non per fare di ciascun edificio un cantiere pullulante di attività; non per porre un argine alle pretese di chi vorrebbe fare della emergenza della cosiddetta “didattica a distanza” una condizione permanente (si è parlato di scuola “ibrida”), completando in tal modo un perverso processo ideologico iniziato molti anni fa, che taglierebbe lavoratori; ma – soprattutto – imprimerebbe alla libertà di insegnamento e al senso della scuola della Repubblica uno stop definitivo, sostituendo per sempre a un organo costituzionale un servizio a domanda individuale, depauperato nella sua funzione di strumento di uguaglianza ed emancipazione per i cittadini di domani. Non per – infine – rivedere a ribasso quel rapporto alunni/docente che – anno dopo anno e per molti anni – è stato ritoccato in eccesso, portando a quelle che qualcuno chiama “classi/aule pollaio” (nelle quali sarà interessante vedere come si configureranno le mitiche barriere in plexiglass, ultima trovata ministeriale); un risultato rincorso non (ovviamente) per conclamate motivazioni didattiche, ma per far fuori progressivamente un numero impressionante di posti di lavoro (e, di conseguenza) di apprendimenti per gli studenti.

Una politica sguaiata e inconcludente, fatta di strategie da condominio di periferia e di promesse vuote e continui cambiamenti di prospettiva, ha reso l’approvazione del decreto scuola una maratona interminabile, intrisa di polemiche, accuse, inutili provocazioni; il provvedimento, varato l’8 aprile, è stato convertito in extremis. Mentre noi, docenti e studenti, attendevamo una parola definitiva. Noi impegnati a varare nei nostri istituti protocolli di sicurezza per l’esame di Stato in presenza: nelle nostre scuole di luglio, affogate nel sole, con guanti e mascherine, immobili, assisteremo – sanificazione dopo sanificazione – ai colloqui dei nostri studenti, senza poter neppure accendere un ventilatore.

Finalmente il via libera è arrivato. Individuata in extremis la cornice giuridica entro la quale si svolgeranno gli esami di Stato nella secondaria di I e II grado, semplificata la procedura concorsuale per il reclutamento, conferiti poteri speciali ai sindaci in materia di edilizia (con quali e quanti fondi sarà da vedere), rimangono alcuni elementi da sottolineare. Cominciamo da un plauso: il provvedimento prevede dal prossimo anno il ritorno, nella scuola primaria, al giudizio descrittivo, in grado di assolvere meglio ad una funzione formativa. Si provvede, in tal modo, a far fuori uno dei tanti atti controversi che il furor numerico della ministra Gelmini (che tagliò, a proposito di numeri, 7 mld alla scuola, insieme a 120mila posti di lavoro, tra personale docente ed Ata) produsse.

Ancora a proposito di numeri, invece, imperversa la polemica tra l’ex ministro Fioramonti, che si dimise in dicembre per aver ricevuto la metà dei 3 miliardi richiesti, definiti allora “fondo di galleggiamento per l’istruzione”, e l’attuale ministro. Tra decreto Rilancio e Cura Italia i fondi per la scuola ammonterebbero a 1,5 miliardi in due anni. Gli investimenti si concentrano prevalentemente su un soluzionismo tecnologico (e tecnocratico) che rifiuta nei fatti di prendere in carico i problemi di una scuola smontata da anni di tagli; una scuola reale, fatta di spazi, strutture, esigenze, fisicità concreta. Continua ad essere insufficiente l’attenzione ad alcuni nuclei critici, che si sarebbero potuti affrontare con un po’ di coraggio e con una visione della scuola quanto meno coerente con quella che il M5S ha sempre rivendicato in periodo elettorale.

Perché non approfittare, come si diceva, per tentare di abbattere il problema delle classi eccessivamente numerose che, oltre a rappresentare un elemento estremamente negativo dal punto di vista didattico, ne configurano – come è di tutta evidenza – uno altrettanto negativo per quanto riguarda la sicurezza? Perché (in tema di esame di Stato) non mettere mano al PCTO (erede della renziana alternanza scuola lavoro), da sempre criticato dal Movimento? Perché, ancora, accogliere, sotto mentite spoglie, la logica della “busta” che tanto biasimo suscitò lo scorso anno e che vede la propria continuazione nel materiale da esaminare, preventivamente predisposto dalla commissione? Il valore legale del titolo di studio – imprescindibile per ribadire la funzione della scuola della Repubblica – dovrebbe poggiare anche su un esame in grado di esprimere il senso emancipante e critico-analitico della cultura.

Quello che spaventa è il rientro: l’impressione è che in troppi (dalla Fondazione Agnelli, all’ANP, da parti del governo e della minoranza, persino dal sindacato che, a più riprese, ha ventilato una contrattualizzazione delle condizioni di didattica a distanza) abbiano in mente di approfittare della pandemia e della Dad (sic!) non come risposta legata all’emergenza, ma per creare condizioni permanenti e definitive. Infatti, il documento partorito dalla commissione di esperti appositamente convocata non fuga questo dubbio, al contrario. Ma di questo parleremo in una prossima occasione.

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