Non ci sono prove che il depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio sia stato compiuto anche da magistrati in servizio all’epoca alla procura di Caltanissetta. Lo sostiene la procura di Messina che dopo due anni ha chiesto di archiviare l’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Accusati di calunnia aggravata, secondo una prima ipotesi accusatoria i due avrebbero avuto un ruolo nell’inquinamento delle indagini. Dell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio, avvenuta a Palermo il 19 luglio del 1992, è da sempre competente la procura di Caltanissetta essendo stato Paolo Borsellino un magistrato in servizio alla procura del capoluogo siciliano. Spetta invece a Messina indagare su eventuali condotte addebbitate a magistrati della città nissena. Per questo motivo l’indagine su Palma e Petralia è stata aperta dall’ufficio inquirente del capoluogo peloritano guidato da Maurizio De Lucia.
Il colloquio dimenticato di Mannoia – Decine di testimoni ascoltati, l’esame delle bobine con intercettazioni di telefonate sepolte negli archivi, indagini e pure l’interrogatorio di un pentito storico come Francesco Marino Mannoia. Un’inchiesta che arriva a 28 anni dall’attentato al giudice Borsellino e che si è conclusa con una richiesta di archiviazione per i due magistrati in cui si sottolineano però le tante anomalie dell’indagine sull’eccidio e sulla gestione dei collaboratori di giustizia e l’evidenza, già all’epoca, dell’inattendibilità di quello che fu ritenuto il superteste, Vincenzo Scarantino. Circostanze indicate nella richiesta di archiviazione che non consentono però alla Procura di concludere per un ruolo dei due pm nell’inquinamento delle indagini. I pm messinesi sono anche tornati a sentire lo storico pentito Mannoia su un confronto, del tutto inedito a cui fu sottoposto dalla Procura di Caltanissetta con Scarantino nel 1995. Già allora Mannoia aveva concluso, e riferito agli inquirenti, rafforzando quanto detto da altri collaboratori, che il balordo della Guadagna non era un mafioso. Conclusione che Mannoia ha ripetuto ai pm messinesi.
La richiesta di archiviazione – Che adesso chiede di archiviare il fascicolo. “Le indagini, doverosamente svolte secondo l’indicazione della Corte di assise di Caltanissetta, pur avendo imposto a quest’ufficio un considerevole dispendio di energie ai fini di soddisfare il canone della completezza, non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere nè dai magistrati indagati, nè da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino“, scrivono i pm nella richiesta di archiviazione. Per gli stessi fatti e per la stessa accusa – calunnia aggravata – a Caltanissetta è in corso un processo contro tre dei poliziotti che condussero le indagini e che, costruendo a tavolino tre falsi pentiti, sono accusati di aver inquinato la ricostruzione dell’attentato al giudice Borsellino e alla sua scorta. “Indubbiamente, – aggiunge la Procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza; tale dato deve fare riflettere su un sistema processuale che, in ben tre gradi di giudizio, non è riuscito a svelare tale realtà. Tuttavia, questa valutazione esula dai compiti di questa Procura della Repubblica, così come ogni valutazione concernente profili diversi da quello penale, per gli indagati e per i magistrati comunque coinvolti nella vicenda processuale”.
Le anomalie delle indagini – La procura di Messina, in ogni caso, mette in fila una serie di “anomalie” che hanno contribuito a far deragliare le indagini. “Le indagini in questione, svolte, si ribadisce, a distanza di oltre 27 anni dalla strage, hanno ricostruito il contesto nel quale è maturata la ‘collaborazione con la giustizià di Scarantino e le anomalie tecnico giuridiche e valutative che hanno caratterizzato quella gestione, in termini di uso dei colloqui investigativi, di contatti informali con il collaboratore ed i suoi familiari”. Sul falso pentito, “principale fonte dichiarativa sulla strage” i pm ricordano come abbia continuato nel corso degli anni, “a contraddirsi rendendo, di fatto ed in diritto, del tutto inutilizzabili le sue dichiarazioni, le quali, comunque, non hanno mai assunto un accettabile grado di concretezza in ordine a possibili contatti delittuosi tra lo stesso e magistrati della Procura di Caltanissetta”. Un atteggiamento che Scarantino ha mantenuto “anche nel corso dell’interrogatorio reso innanzi a questo ufficio, arrivando a negare circostanze e fatti che, invece, aveva riferito in precedenti contesti giudiziari”, aggiungono. A titolo di esempio i pm citano la vicenda dei verbali degli interrogatori con gli appunti scritti a mano che avrebbero dovuto “guidare” il falso pentito nella versione da dare sull’attentato al giudice Borsellino. Sulla provenienza dei verbali Scarantino, a differenza di quanto detto in passato, non ha saputo dire alla procura di Messina, se all’ispettore Mattei, che materialmente glieli consegnò e che ora è sotto processo a Caltanissetta, li avesse dati l’ex pm Palma. “Mattei non ricordo se i verbali li avesse già, o se glieli diede qualcuno. Il mio è un ricordo lontano. – ha detto il falso pentito ai pm messinesi – Quello che ho dichiarato nel corso del dibattimento in relazione alla Palma non ricordo oggi se è vero. Non ricordo se Mattei avesse già i verbali o se gli furono dati da qualcuno…non mi sono inventato nulla, però non posso escludere di aver fatto confusione”. Sempre interrogato dai pm messinesi, contraddicendosi nuovamente, Scarantino ha negato di aver ricevuto dall’ex pm Palma le foto della villa in cui a suo dire si sarebbe svolto il summit deliberativo della strage perché arrivasse preparato poi alla deposizione e di aver subito pressioni dalla procura.
Il limite temporale dopo 27 anni – Ma non solo. Per i pm “il silenzio, ineccepibile in punto di diritto del quale si sono avvalsi” i tre poliziotti sotto processo per il depistaggio a Caltanissetta, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che rispondono di calunnia aggravata, “non ha consentito di comprendere quale effettivo ruolo hanno svolto il dottor Giovanni Tinebra – a quell’epoca Procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta – ed i suoi sostituti nella gestione di Scarantino, né quale direzione effettiva essi hanno avuto delle indagini. Senza dire che la scomparsa di Tinebra e La Barbera ha impedito, oggettivamente, di acquisire le conoscenze che gli stessi direttamente avevano o potevano avere dei fatti”. Il riferimento è all’ex procuratore di Caltanissetta e all’ex capo della Mobile di Palermo che coordinava il gruppo investigativo che svolse gli accertamenti sull’attentato al giudice Borsellino. Un elemento che non aiuta nella ricerca della verità, secondo gli inquirenti peloritani, è il tempo. “Le indagini si collocano a distanza di oltre 27 anni dalla strage e scontano dei limiti strutturali difficilmente superabili“, scrivono i magistrati di Messina, che in due anni di indagini hanno interrogato veri e falsi pentiti e tutti i protagonisti delle vicende dell’epoca poliziotti, avvocati e magistrati. “Il venir meno, nel tempo, di fonti di prova rilevanti (è il caso – scrivono – dei sopravvenuti decessi del dott. Tinebra e del dott. Arnaldo La Barbera, i quali hanno certamente avuto un ruolo importante nella vicenda)”. A incidere sull’esito dell’inchiesta di Messina anche “l’usura delle fonti dichiarative – sentite più volte in questo lasso di tempo e con risultati che hanno i caratteri della contraddittorietà, non conseguenzialità logico temporale”. “Inoltre, – concludono i magistrati – va ancora ribadito che le attuali indagini hanno avuto un perimetro ben delimitato: sono state finalizzate esclusivamente a verificare l’esistenza di profili di rilevanza penale a carico dei magistrati che si occuparono della gestione di quei collaboratori di giustizia le cui dichiarazioni furono utilizzate nell’ambito dei procedimenti scaturiti dalla strage di via D’Amelio”.
L’incontro tra Fiammetta e i Graviano – Tra i testi sentiti dai pm di Messina c’è stata anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato il 19 luglio del 1992, che ha raccontato ai magistrati del suo incontro in carcere con i boss Giuseppe e Filippo Graviano, capimafia di Brancaccio condannati per l’attentato. La figlia del magistrato, che due anni fa ebbe il permesso di andare a colloquio coi due padrini stragisti, definisce l’incontro “un percorso personale“, ma non nasconde di aver sperato che da quel colloquio arrivasse un contributo alla verità pur nella consapevolezza che sarebbe stato molto difficile vista la caratura criminale dei due boss. Fiammetta Borsellino racconta dei tentativi di Graviano di discolparsi, tentativi “grotteschi“, dice ai pm. E riferisce di aver replicato al boss Giuseppe, che l’aveva accolta in vestaglia: “Ah, vedi che c’è, sono fortunata, oggi sono davanti a un Santo che è qui a scontare una pena non si sa perché…”. Graviano avrebbe tentato di addossare la colpa del depistaggio delle indagini ai magistrati. “L’unica cosa che mi sono limitata a dire è che spostare la responsabilità su altri non serviva ad eludere le sue di responsabilità, soltanto questo”, ha raccontato ai pm. Diverso sarebbe stato invece il tono del colloquio con Filippo Graviano che si sarebbe presentato “in uno stato di dolore e prostrazione visibile“. “Una persona – ha detto Fiammetta Borsellino – che non aveva imparato la lezioncina a memoria, cioè, lì c’è stato spazio per parlare di dolore, di insicurezze, del fatto che lui, appunto, non rinnegava quello che aveva fatto”.