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di Silvia Grasso
Che fine hanno fatto gli studenti nel dibattito sull’università nell’era della pandemia se lo sono chiesti in pochi, pochissimi. Anche durante la fase di ripartenza economica si è molto discusso sulla riapertura dei diversi settori lasciando irrisolte alcune questioni fondamentali, le uniche veramente importanti: salute, scuola, università. Un paese che vuole e deve ripartire non può lasciare al caso la tutela della salute e l’istruzione eppure, nel nome della buona pratica del distanziamento sociale divenuto ormai una soluzione permanente, sembra che bastino mascherine e app per poter tornare nuovamente ad una normalità apparente.
Per la scuola le tesi sono varie e confuse, ma una cosa sembra delinearsi con sempre più chiarezza: si tornerà a scuola, non si sa in che modalità, ma si ritornerà. Per l’università, invece, tutto tace. Anzi: la prospettiva che sembra delinearsi per il prossimo futuro delle università è quasi completamente virtuale e digitalizzata. Il potenziamento tecnologico, da forma di integrazione, diventa soluzione definitiva. Non si tratta del semplice scontro tra apocalittici e integrati e la questione non è semplicemente se cedere o no alla tecnologia, semmai la vera questione è in che contesto sociale, culturale ed economico la tecnologia si inserisce.
Mentre in America si parla di uno “screen new deal”, molte università anglosassoni hanno già dichiarato che il prossimo anno accademico la partecipazione alle lezioni avverrà esclusivamente attraverso lo schermo, interrompendo tempestivamente gli accordi di scambio studenteschi con l’Italia precedenti al Covid. In Italia sta passando l’idea che questa potrebbe essere una buona opportunità per poter frequentare le università prestigiose direttamente dalle nostre case, abbattendo i costi. Ma a quale costo?
Gli studenti continuerebbero a pagare le tasse per mantenere strutture non funzionanti? Ci saranno tagli tra gli amministrativi o al personale docente? Che fine faranno i concorsi? Ma soprattutto: cosa ne pensano gli studenti? Facendo delle interviste a campione tra i vari atenei italiani sono molti gli studenti che si dichiarano depressi, spaesati e senza futuro. Un dato comune desolante: se il prossimo anno accademico sarà virtuale, molti studenti affermano di non continuare i loro studi magistrali.
Non è un caso che i dibattiti relativi all’università siano interni all’accademia e che non siano troppo di dominio pubblico, non è un caso in un paese come l’Italia in cui da anni vi è una mortificazione della cultura all’interno del dibattito sociale in cui si ripete come un mantra l’idea che l’università sia inutile: la verità è che è l’unica via di riscatto sociale. L’università è prima di tutto socialità, uno scambio di corpi prima ancora che di informazioni.
Per molti, la formazione universitaria e l’avanzamento negli studi è l’unico modo per ottenere un avanzamento sociale necessario, la cui negazione è un problema di disuguaglianza sociale. A niente servirà poter ascoltare lezioni replicanti attraverso i nostri pc, questa possibilità ci è già concessa: la vera formazione accademica è esperienza. E l’esperienza passa attraverso il confronto, la paura, la speranza, le difficoltà, la collaborazione, lo scontro; in altri termini passa attraverso i corpi.
L’opportunità di poter frequentare qualsiasi università passa dalla rivendicazione del diritto allo studio, borse di studio, opportunità, meritocrazia. Gli schermi sono un mezzo, non la via.