Sono passate poco più di 24 ore da quando, mercoledì pomeriggio, durante il question time alla Camera il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sembrava rassicurare i deputati di Liberi e Uguali che gli chiedevano conto del via libera del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, alla maxi-commessa da 9-11 miliardi per la vendita di armamenti all’Egitto: “La vendita non è ancora stata autorizzata”, aveva detto rispondendo a chi considera l’affare un “tradimento”, come lo ha definito la famiglia stessa, nei confronti di Giulio Regeni. Il giorno dopo, nel corso del Consiglio dei Ministri, con un’informativa il premier ha però confermato, da quanto si apprende senza nessuna opposizione tra i membri del governo, il via libera.
La partita politica è finita qui perché prima della luce verde definitiva manca solo l’ok dell’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, che dovrà solo certificare che la vendita dei materiali militari, due fregate Fremm a cui dovrebbero in futuro aggiungersi altre 4 navi simili, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon e 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, sia avvenuta nel rispetto delle normative italiane e internazionali. Firma che, dicono, è attesa già “nelle prossime ore”.
Il tutto prima che il presidente Conte riferisca davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, in seguito alla richiesta avanzata dal presidente in quota LeU, Erasmo Palazzotto, dopo le indiscrezioni uscite riguardo alla maxi-commessa. E questo nonostante l’opposizione anche, e solo, interna alla maggioranza sulla decisione di continuare a rifornire il regime di Abdel Fattah al-Sisi di armi. Ultimo a protestare è stato il deputato del Pd, Matteo Orfini, che poco prima della conclusione del Cdm aveva annunciato che “lunedì insieme ad altri presenterò alla direzione del Pd un ordine del giorno che chiede di interrompere la vendita di forniture militari all’Egitto. Spero che molti lo sottoscrivano e che venga approvato senza tentennamenti”. Per quel giorno, probabilmente, l’Uama avrà però già dato il via libera definitivo.
Ma nei giorni scorsi c’erano state anche le proteste di altri deputati di maggioranza che, a Ilfattoquotidiano.it, avevano chiesto in coro il passaggio parlamentare, come previsto dalla legge 185/90 e come avviene per le decisioni riguardanti la politica estera, oltre che dichiarare che una scelta del genere rappresentava uno schiaffo alla memoria di regeni e anche a Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere al Cairo dal 7 febbraio. La richiesta era arrivata da Laura Boldrini del Pd, Luca Fratoianni di LeU e anche dalla portavoce alla Camera del Movimento 5 Stelle Yana Ehm. Appelli però non ascoltati dall’esecutivo.
E in mattinata sulla questione è intervenuto anche Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva, parlando a Circo Massimo, su Radio Capital, ha dichiarato: “Mi permetto di dirle, e scandisco ciò che sto dicendo, che è arrivato il momento che gli inglesi dicano la verità su questa storia, l’atteggiamento di apparati istituzionali inglesi non è più accettabile. È arrivato il momento che tutti tirino fuori le carte sulla vicenda”, ha detto riferendosi alla mancata collaborazione alle indagini, oltre che degli apparati egiziani, anche dell’università di Cambridge, per la quale il ricercatore di Fiumicello era andato in Egitto, e della professoressa Maha Abdelrahman.
Intanto, nelle prossime settimane è previsto un nuovo incontro in videoconferenza tra i magistrati italiani e quelli egiziani per fare il punto sulle indagini relative all’omicidio del ricercatore di Fiumicello. Al centro del meeting anche la rogatoria inviata dai pm di Roma con la quale si chiedono conferme all’autorità giudiziaria del Cairo in merito alla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, di uno dei cinque indagati a Roma, il maggiore Sharif, che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. I pm hanno inoltre sollecitato agli omologhi egiziani l’elezione di domicilio degli indagati (tutti appartenenti agli apparati di sicurezza) e infine dati sui tabulati telefonici.