Una delle cose che mi fanno arrabbiare nel mio mestiere di insegnante è quando trovo scritto che il mio compito è di “erogare didattica”. Certe volte si legge il termine “didattica erogativa”. Quelli che hanno inventato questo termine dovevano avere in mente l’università come un distributore di benzina e gli studenti come un serbatoio da riempire. Se fossero esistiti al tempo del Rinascimento, Michelangelo sarebbe stato pagato per la Cappella Sistina un tanto al metro quadro. Ma è così che funziona la burocrazia.
Per fortuna, indipendentemente dalla burocrazia, l’insegnamento universitario è spesso una cosa interessante e ben fatta. Questa è, ovviamente, una mia considerazione personale ma, per quello che so, nonostante i tagli e i vari disastri, l’università italiana è ancora un’istituzione di persone competenti che fanno del loro meglio. E anche i nostri studenti, spesso, ce la mettono tutta.
Tuttavia, il coronavirus ci ha costretto ad abbandonare le aule e passare alla didattica virtuale e, se volete la mia opinione, è stato un bel disastro. Per gli studenti, diciamo che c’è solo una cosa più noiosa che sentire una lezione universitaria: sentirla senza nemmeno vedere la faccia di quello che parla! Per il docente, la lezione virtuale in diretta ti consente ancora di vedere le facce dei tuoi studenti, ma non sai se stanno vedendo te sul loro schermo oppure un videogioco o un filmino di YouTube. Ancora peggio sono le lezioni registrate: parli senza avere la minima possibilità di dialogare con gli studenti. Insomma, è stato il trionfo della didattica erogativa: uno parla, gli altri ascoltano.
Ma sono cambiate profondamente tante altre cose. Pensateci: in Italia ci sono circa 90 atenei che forniscono un panorama di corsi completo, ognuno con il suo docente. Per quanto riguarda i corsi di base, dalla chimica alla filosofia, sono tutti più o meno gli stessi. Ma mentre ora ci vuole un docente per ogni ateneo per ogni corso, al momento in cui si passa in virtuale non c’è ragione perché un singolo docente (o un piccolo team di docenti) non possa coprire lo stesso insegnamento per tutti gli atenei italiani.
Questo vuol dire poter ridurre enormemente il numero dei docenti universitari. In Italia ce ne sono circa 45.000 ed è difficile che uno di loro possa costare allo Stato meno di un centinaio di migliaia di euro all’anno. Riducendone il numero, immaginiamo di dimezzarlo, lo Stato potrebbe risparmiare qualche miliardino che, di questi tempi, farebbe comodo per tante altre cose. Per non parlare dei risparmi che il virtuale porta in termini di aule, infrastrutture, mense, alloggi, e tante altre cose.
Questa è una cosa che non ho certamente pensato soltanto io. Sono sicuro che i burocrati che se ne occupano si stanno fregando le mani al pensiero di poter fare qualche bel taglio al budget per le università. Certo, i docenti non sono contenti, ma ho l’impressione che abbiamo ormai imboccato quella strada.
Potrebbe essere un miglioramento? Forse. Di certo, di 44.000 docenti ce ne saranno sicuramente non pochi che sono svogliati o incompetenti. Facendone a meno, potremmo avere dei corsi migliori affidandoli a persone che si specializzano nella didattica. Ma, in pratica, questa sarebbe la fine dell’università come l’abbiamo conosciuta fino a oggi: un luogo fisico, che oggi chiamiamo “campus,” dove le persone si incontrano per costruire quello che si chiamava una volta “sapienza” (non casualmente il nome dell’ateneo italiano più grande). E mi sa che la sapienza è una cosa che si può costruire, ma non erogare.
Ma, i cambiamenti sono inevitabili. Possiamo cercare di conservare certe caratteristiche dell’università, ma ci dobbiamo anche preparare a un mondo dove l’insegnamento si farà, almeno in parte, in modo virtuale. E, come sempre, andremo avanti facendo il meglio possibile. Per ora, se potete raccontare nei commenti come è stata la vostra esperienza con i corsi virtuali, da studenti o da docenti, sarebbe una cosa molto interessante da discutere.