I ragazzi del Nickel - 2/3
Primi anni ’60. Florida, Sud degli Stati Uniti. Una macchina della polizia ferma due afroamericani su una Chevrolet. Alla guida c’è un adulto che ha appena dato un passaggio ad un ragazzino. Che il 99% di chi sta leggendo queste righe sappia già cosa succederà dopo questa scena non è un buon segno. Mica tanto per il libro in questione – I ragazzi del Nickel (Mondadori) – quanto perché questa situazione siamo oramai abituati a leggerla settimanalmente nel sopruso che sta realmente per accadere: i poliziotti bianchi che esercitano la loro autorità cieca sui neri. Il ragazzino, Elwood, è il protagonista di questa storia apparentemente racconto di crescita e (tragica) formazione, poi sostanzialmente romanzo sociale sulla dignità dell’essere afroamericano negli Stati Uniti di nemmeno sessant’anni fa. Elwood vive con la nonna, fa diversi lavoretti legali per sbarcare il lunario, vive ascoltando dischi su cui sono incisi i discorsi di Martin Luther King, partecipa di sfuggita a qualche marcia per i diritti civili, viene adocchiato da un prof lungimirante che scova per lui una borsa di studio ad un college per neri. Solo che, appunto, la mattina del primo giorno di college, Elwood sale sull’auto sbagliata e finisce dritto (senza appello alcuno) in un riformatorio lontano da casa: il Nickel. Un luogo che è una specie di inferno per neri (e bianchi) diseredati. Stamperia modello dello stato, ma anche e soprattutto spazio in cui i ragazzi neri vengono puniti con centinaia di frustate e talvolta vengono proprio fatti scomparire dopo essere stati uccisi. Non aspettatevi però un’epica del singolo, perché Colin Whitehead (Pulitzer per La ferrovia sotterranea, Sur, 2016) è uno di quegli autori che applica la ricetta del buon libro medio. Si preoccupa più del meccanismo generale del racconto, tralasciando l’esemplarità della prima persona (Elwood sembra più un abbozzo di personaggio che si mescola con il compagno di “prigionia” Turner, quasi confondendosi), sbilanciando tutta la parte storico-simbolica nelle prime cinquanta pagine, infilandosi nel tunnel della Nickel (che è anche un po’ tunnel di scrittura che si fa più opaca, sincopata, in certi momenti perfino distratta), per poi concludere pensando più al colpo di scena che all’osmosi profonda tra vittime dei soprusi e la loro storicizzazione. Un lavoro altalenante, nemmeno così politicamente prorompente come ci si aspettava dopo così tanta pubblicità da oltreoceano. Voto: 6+