Un altro tamburo - 3/3
Immaginate che all’improvviso, sul finire degli anni cinquanta, in un immaginario stato segregazionista del Sud degli Stati Uniti d’America, tutti ma proprio tutti gli afroamericani raccolgano ogni loro avere e si trasferiscano in massa al Nord. Lo spunto spiazzante e antispettacolare di Un altro tamburo, scritto nel 1962 da William Melvin Kelley, e oggi ripubblicato da NNEditore, è improbabile, ma la ricognizione umana e politica che ne irradia i rivoli narrativi possiede una tale robusta fierezza identitaria che lascia ancora oggi stupefatti. La lotta emancipatoria di liberazione dalle catene di una reiterata storica inferiorità razziale è come gentilmente scombussolata da Kelley in un atipico, curioso, cocciuto racconto in cui l’osservazione della fuga orgogliosa capitanata anche solo simbolicamente dai gesti inattesi dell’afroamericano Caliban Tucker è continuamente operata dal punto di vista traballante dei bianchi, proprietari terrieri da generazioni, dai loro figli e figlie, come dai dropout da drugstore che fanno partire il racconto. Già, perché Un altro tamburo, per far risuonare una foga inesauribile di dignità e libertà alla Django tarantiniano, inizia con un racconto dei tempi lontani modello cantastorie bianco sulla tratta degli schiavi con l’arrivo a New Marsails di una nave zeppa di uomini in catene, da dove scende impetuoso e violento l’Africano, uno schiavo nero enorme e iracondo che dopo aver ucciso a pugni e staccando teste i marinai fuggirà con un neonato sottobraccio. Sarà il generale confederato Dewey Willson, lì al porto per recuperare una pendola giunta dall’Europa, ad inseguire il furente schiavo, a domarlo per un attimo, e ad ucciderlo. Dopo quasi cento anni gli eredi di terza generazione di Willson ancora possiedono terre, piantagioni e prestigio sociale. Tucker, l’erede dell’Africano, è riuscito a comprarsi un po’ di terra che però all’improvvisano cosparge di sale per renderla inutilizzabile, ne brucia fattoria, stalla e animali, e infine gira i tacchi e se ne va. Accadimenti inattesi filtrati letterariamente dai bianchi in prima persona. La lingua di Kelley – in appendice ci sono le preziose note della traduttrice Martina Testa – rispetta le differenze culturali tra ceti sociali sia bianchi che neri (il reverendo battista usa una terminologia diversa rispetto a Tucker), costruendo lessico ed espressione differenziati ma formando un discorso omogeneo sinuoso e avvolgente, paradossalmente pendente sullo stupore dei bianchi, quasi che l’emancipazione finale dei neri avesse bisogno di una distanza emotiva, di una traduzione da parte degli ottusi schiavisti, di un punto di vista altro per risuonare ancora più decisa e forte, ancora più necessaria e definitiva. Voto: 7