Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Nery Pumpido avanza lentamente lungo il cortile di Trigoria. Davanti a lui sfilano uno dopo l’altro tutti i giocatori dell’Argentina. Lo abbracciano, lo baciano sulla guancia, gli augurano buona fortuna. Il portiere annuisce e ringrazia, sorride e sussurra che va tutto bene. Anche se in verità lui ha paura. Da morire. Perché sta per compiere 33 anni. E difficilmente troverà un altro club pronto a scommettere su di lui. Nery Pumpido fa forza sulle stampelle e prova a non poggiare a terra il gesso che avvolge la sua gamba destra. L’amico fraterno Sergio Goycochea si china ad aiutarlo, solleva il suo piede con le mani, lo issa su quel pulmino bianco che deve portarlo a Fiumicino. Perché il Mondiale italiano di Nery Pumpido è finito da un pezzo. E ora per lui è arrivato il momento di tornare a casa.

Il portiere campione del Mondo in carica ha giocato appena 97’. Giusto il tempo di esibirsi in un grottesco intervento che ha regalato la vittoria al Camerun nella gara d’esordio. Ma il peggio arriva nella seconda partita, quando l’Argentina affronta l’Unione Sovietica. La squadra di Bilardo deve vincere a tutti i costi se vuole avere ancora speranze di passare il turo. È il 13 giugno del 1990, il palcoscenico è quello del San Paolo di Napoli. Il clima è teso, al 7’ Nery Pumpido esce basso nella sua area di rigore e si scontra con Julio Olarticoechea. Il ginocchio del difensore picchia forte contro la tibia del portiere. Il numero uno ha appena il tempo di girarsi prima di sentire il dolore affondare i denti nella sua gamba. Basta uno sguardo per capire che si tratta di qualcosa di molto grave. Basta vedere la sua gamba che oscilla molle dentro il calzettone per capire che bisogna fare in fretta.

Nery Pumpido viene caricato prima su una barella e poi su un’ambulanza. Soffre e prega, prega e soffre. Fino a quando un medico non gli comunica l’esito degli esami. Tibia e perone sono frantumati. Il suo Mondiale finisce in quel giorno. La sua carriera quasi. Nery Pumpido cerca di trattenere le lacrime, ma non ci riesce. Si sente vittima di una maledizione. Perché è da quando l’Argentina è salita sul tetto del mondo, a Messico ’86, che il portiere raccoglie solo dolore. Subito dopo aver vinto il Mondiale Nery Pumpido si era presentato davanti ai microfoni. “La gente del Messico non è stata giusta con noi”, aveva detto. E in poco tempo era stato travolto dalle critiche. I giornalisti messicani avevano iniziato a dedicargli parole velenose. Come “mosca nella minestra”, come “pecora nera”, come “elefante nel negozio di cristalli”. Più di un articolo inizia così: “Pumpido, come uomo vale zero”.

Un anno più tardi l’Argentina affronta l’Italia in un’amichevole fortemente voluta dalla Fifa. Gli assenti sono tanti. Valdano ha contratto l’epatite virale. E anche Pumpido è costretto a guardare gli altri che giocano. Ha un braccio fasciato intorno al collo. E nessuna voglia di parlare. Nel luglio del 1987 Maradona guida l’Argentina nella semifinale di Copa America contro l’Uruguay. E Nery è ancora fuori dal campo e dentro una sala operatoria. Durante un allenamento la sua fede nuziale è rimasta impigliata al gancio della traversa. Alla fine gli hanno dovuto amputare il dito. C’è voluta un’operazione di quattro ore per riattaccare l’anulare alla sua mano.

Italia ’90 doveva essere l’occasione per tornare alla normalità, per dimostrare che quel portiere con i capelli lunghi e lo sguardo sempre triste era ancora fra i più forti in circolazione. Un sogno che va in pezzi al 7’ della seconda giornata. Quando Pumpido viene portato fuori dal campo, Bilardo si gira verso la panchina e fa un cenno al portiere di riserva, Sergio Goycochea. Lui e Nery erano molto amici fin dai tempi del River, quando “Goyco” era costretto a recitare il ruolo dell’eterna riserva del campione. Poi le loro strade si erano divise. Nery era andato al Betis Siviglia, Sergio ai Millionarios di Bogotà.

In pochi si fidano dell’abilità fra i pali del numero 12. Anche perché sono mesi che non gioca una partita ufficiale. Qualcuno dice che la seconda Mano de Dios, quella con cui Maradona ha parato un tiro sovietico destinato in fondo al sacco, fosse dovuta proprio alla paura di vedere in azione il portiere. E invece quel cambio fra i pari sarà fondamentale per l’Argentina. Mentre la squadra di Bilardo si allena, qualche chilometro più in la, nella clinica Villa del Sole di Napoli, Pumpido finisce sotto i ferri. L’operazione dura 40 minuti. Seguiranno 50 giorni di gesso e 5 mesi di riabilitazione prima di poter tornare in campo. “Ho voluto essere in campo a tutti i costi, nonostante le critiche della stampa argentina – dice il portiere – sono stato molto sfortunato ma mi rifarò presto”.

Intanto, in campo, Goycochea non fa neanche un errore. E in poco tempo si conquista la fiducia dei compagni. “Ho pianto di felicità e ho ringraziato Dios”, dice dopo la gara contro l’Urss. “Sono addolorato per Pumpido, amico e compagno, ma il mio momento è arrivato”. Nella terza partita del girone l’Albiceleste affronta la Romania. Finisce 1-1. La squadra di Bilardo passa come migliore terza classificata. Subito dopo il match la squadra fa visita al suo numero uno. Ed è un incontro che ha tutto il sapore di un addio. La Fifa ha autorizzato l’Argentina a sostituire Pumpido con un altro portiere. Il nuovo arrivato si chiama Comizzo. E gioca nel River Plate.

Agli ottavi di finale l’Albiceleste batte il Brasile tutt’altro che irresistibile di Lazaroni. Poi, ai quarti, incontra la Jugoslavia. I tempi regolamentari e i supplementari si chiudono con un pareggio che solo la giustizia parziale dei calci di rigore può modificare. Prima dei tiri dal dischetto Goycochea si gira verso i compagni. “Io ve ne evito due, voi fate il resto”. Detto, fatto. Il numero 12 neutralizza i penalties di Brnovic e Hadzibegic e trascina i suoi in semifinale. Dopo la partita Goycochea prende il telefono e chiama a Buenos Aires. Vuole condividere la sua gioia con l’amico Pumpido. È così agitato che per dormire deve prendere un tranquillante.

Il 3 luglio, a Napoli, si gioca una semifinale che entrerà nella storia. E non per i motivi che sognavano gli italiani. “Chi è più fortunato fra me e Schillaci? Vedremo dopo la partita – dice il portiere alla vigilia della gara – comunque non è un caso che io abbia parato due rigori alla Yugoslavia, è anche frutto del lavoro in allenamento”. Parole che suonano come un campanello d’allarme. Proprio Schillaci porta in vantaggio l’Italia. Al resto ci pensa l’uscita di Zegna e il gol di Caniggia. Si va ai rigori. Di nuovo. Gli italiani calciano 4 volte su 5 sullo stesso palo. Goycochea tocca il tiro di Baggio ma non riesce a evitare il gol. È solo la prova generale per quello che accadrà poco dopo. Il portiere argentino para i rigori di Donadoni e Serena. Poi si mette a correre verso la sua panchina. “L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo – dice Bruno Pizzul – sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”.

Il sogno azzurro è finito. Quello dell’Argentina svanirà qualche giorno più tardi, nella finale contro la Germania Ovest. Sergio Goycochea diventa il portiere di riserva che ha eliminato l’Italia. Ma la fama dura poco. I Millionarios, nonostante il nome, non hanno soldi sufficienti per rinnovargli il contratto. Qualche squadra della Bundesliga si interessa a lui, ma non se ne fa niente. L’eroe delle notti magiche inizia un lungo peregrinare in Argentina. Nel 1994, dopo essere stato squalificato per doping, Maradona si ritira a Corrientes, a un migliaio di chilometri da Buenos Aires. Il Textil Mandiyú gli affida la panchina nella speranza di salvare una stagione difficile. In quella squadra senza palmares Diego incontra di nuovo Goycochea. Ma stavolta non avverrà nessun miracolo.

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