Perché, nonostante una opinione pubblica “non favorevole”, denunce e condanne (anche da parte della politica), le banche faticano a diventare delle learning organization? E’ mai possibile che dopo un decennio di brutte figure sociali e di immagine, il sistema bancario non cambi il suo atteggiamento e non impari dai suoi errori?
Dopo 25 anni di vita vissuta in quel mondo e altri 10 a studiarne gli effetti dall’esterno, sono giunto a questa conclusione.
Ci sono tre maniacali ossessioni che inducono i manager bancari a restare immobili e a non imparare dagli errori.
In primis c’è l’ossessione per il successo.
In tutte le banche i processi formativi e di crescita implementati dai manager si basano sull’assioma, solo teorico, che “sbagliando si impara” ma il loro operato poi dimostra che sono ossessionati dal successo. Non sorprende di certo, ma è un’ossessione spesso eccessiva ed ostacola l’apprendimento perché fa emergere tre problemi:
- La paura del fallimento – il fallimento può scatenare un torrente di emozioni sgradevoli: dolore, rabbia, vergogna, perfino depressione. Niente di più normale, quindi, che la maggior parte di noi cerchi di evitare gli errori e, se non ci riesce, di nasconderli sotto il tappeto. Questa tendenza naturale si accentua ancora di più nelle banche in cui i manager, spesso senza volerlo, istituzionalizzano la paura del fallimento, elaborando progetti che non concedono tempo e denaro alla sperimentazione e ricompensando con gratifiche e promozioni chi si attiene alla compiacenza
- Una mentalità rigida – le persone con una mentalità rigida, nell’approccio alla vita, credono che talento ed intelligenza siano in gran parte una questione di genetica: o ce l’hai o non ce l’hai. Credono di possederla e desiderano a tutti i costi apparire più intelligenti degli altri: vedono il fallimento (inteso come mancato raggiungimento di un obiettivo) come qualcosa da evitare, per paura che li possa far sembrare incompetenti.
- L’errore di attribuzione – un fenomeno per il quale, di solito le persone attribuiscono i propri successi all’impegno, al talento ed alla bravura, non alla fortuna. Mentre i fallimenti, invece, li imputano alla sfortuna. In effetti, finché i manager bancari non riconosceranno che un insuccesso è frutto delle loro azioni, non potranno mai imparare dagli errori.
In secondo luogo c’è l’ossessione per il conformismo
Quando si entra in una banca, così come in una qualsiasi organizzazione, è normale volersi integrare, ma questo atteggiamento dà origine a un problema storico che ostacola l’apprendimento: l’obbligo di doversi uniformare.
Nella nostra vita e nel nostro paese in particolare, scopriamo sin da piccoli che fare ciò che fanno gli altri ci offre dei vantaggi concreti. Ma il problema è che facendo così limitiamo il nostro apporto all’organizzazione. Basta citare la celebre frase di un mio ex capo e direttore generale della banca quando organizzava riunioni con noi capi-area: “Qui pensiamo noi. Voi venite pensati”. L’annullamento del pensiero. Contrariamente a ciò che si pensa, in banca si ha paura ad essere diversi perché solo il “conformato” riceve rispetto.
Infine c’è l’ossessione per le competenze esterne
Le banche sono ancora legate al taylorismo, nel senso che hanno un approccio ancora troppo rigoroso all’analisi del funzionamento delle loro organizzazioni.
Un approccio basato sul concetto che per migliorare conviene sempre attingere alle idee degli “esperti”. Anche oggi, nei loro limitati sforzi per migliorare, le banche continuano a ricorrere a consulenti, specialisti e via discorrendo. L’ossessione per la competenza produce un coinvolgimento inadeguato della “prima linea”. I bancari della “prima linea” (quelli direttamente coinvolti nell’offerta e vendita di un servizio e nell’interazione con i clienti) spesso sono nella posizione migliore per individuare e risolvere i problemi. Troppo spesso, però, non sono proprio ascoltati.
Chissà se la inutile (finora) commissione bicamerale sulle banche si porrà mai questi interrogativi