Tre mesi, 13 settimane, 95 giorni, 2.280 ore, 136.740 minuti. Tanto è passato dall’ultima volta in cui si era giocata una partita. Da allora c’è chi ha contato pure i secondi, chi si è semplicemente disintossicato, chi addirittura si è augurato che il calcio non ricominciasse più. Adesso il pallone è tornato e, diciamo la verità, ci era mancato, più o meno a tutti. Lo dicono i numeri: le due semifinali di Coppa Italia, Juventus-Milan e Napoli-Inter, gran galà della sospirata ripresa, sono state seguite da 7-8 milioni di spettatori, con punte del 34% di share.
C’è un misto di sollievo, felicità, indifferenza, delusione il giorno dopo la ripresa. Ognuno l’ha vissuta a suo modo, questione di sensibilità, emozioni personali. Tutto estremamente soggettivo. Quello che è oggettivo è lo spettacolo a cui abbiamo assistito: mediocre, inconsistente. Juventus-Milan è stata una partita tipo amichevole d’agosto, ritmi bassi, zero tiri in porta, risolta in quei 30 secondi di caos, fra il rigore generoso concesso dal Var e sbagliato da Ronaldo e la follia di Rebic punita con l’espulsione. Appena meglio Napoli-Inter, brutta copia della brutta partita dell’andata, con i nerazzurri di Conte superiori e spreconi, la squadra di Gattuso asserragliata in difesa, cinica al punto di guadagnarsi la finale con due tiri in porta in due gare.
Mercoledì all’Olimpico per l’ultimo atto speriamo di vedere qualcosa di più, un brivido, un sentimento. Il dubbio, però, è se questo calcio sia ancora in grado di offrircelo. Probabilmente è prematuro chiederselo, in fondo era solo la prima partita dopo tre mesi di stop, con quello che c’è stato di mezzo, anche la Serie A ha tutte le attenuanti del caso. Il problema di questi primi 180 minuti, però, non è stato Cristiano Ronaldo giù di tono o Lautaro Martinez con la testa al mercato, nemmeno i soliti limiti dell’Inter di Conte o il gioco balbuziente della Juve di Sarri. È tutto il calcio post Covid a non essere stato la stessa cosa: un calcio senza emozione e per questo poco emozionante.
Quell’atmosfera ovattata, il rimbombo del pallone o delle voci dei calciatori negli stadi deserti, è straniante: la Uefa è già partita alla carica per consentire l’accesso almeno ad una quota ridotta di spettatori, broadcaster e società studiano effetti sonori speciali e cori personalizzati (ma sarebbe una presa in giro, come le risate nelle sit-com). In attesa di sviluppi, farci l’abitudine non sarà facile. Ne risente il tifoso sul divano, ma anche i giocatori in campo: abbiamo visto due partite a eliminazione diretta, il cui finale in una situazione normale sarebbe stato palpitante, invece neanche un sussulto. Sarà forse perché questa stagione sportivamente è finita tre mesi fa: la si può anche concludere perché i presidenti devono incassare i soldi dei diritti tv e il pallone è una grande industria che come qualsiasi altra attività economica ha bisogno di ripartire, ma non la si può riattivare a comando. Ci vorrà del tempo per tornare ad esultare per un gol o disperarsi per un rigore sbagliato. O forse non è neanche una questione di tempo, è solo che dopo gli ultimi tre mesi abbiamo imparato a dare una gerarchia diversa alle priorità della vita.
Tornare a vedere, commentare, vivere una partita non è stato banale. Era una parte della nostra vita che ci era stata tolta all’improvviso, insieme a tante altre cose, anche molto più importanti. Adesso che ci viene restituita, siamo felici di riavere il nostro amato pallone. Ma riusciremo ancora a emozionarci per questo calcio?