Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)
Gran fisico e pure agile e veloce per l’epoca, un piedino chirurgico ma in grado di tirare sassate, capacità di vedere lo sviluppo del gioco con diverse mosse d’anticipo. All’epoca del mondiale considerato, a ragione, uno dei migliori calciatori tedeschi e probabilmente il più dotato tecnicamente. E no, non si parla di Brehme, Matthaus, Voeller o Haessler: ma di Uwe Bein. C’era anche lui in mezzo a quei campioni, nel 1990, in quella Germania non bella ma solida che si laureò campione del mondo in Italia, anzi: avrebbe dovuto essere il protagonista assoluto. Così non andò, e ormai Bein lo ricordano in pochi.
Soprannominato in patria tödlicher Pass, letteralmente “passaggio mortale”, per la sua capacità di infilare il pallone dovunque e farlo arrivare all’attaccante solo davanti alla porta, nato in Assia nel 1960 e cresciuto calcisticamente nei Kikers di Offenbach: centrocampista offensivo, un metro e 80 e un sinistro potente e di una precisione che lasciava ammaliati. Ma al piedino liscio e levigato corrisponde anche un carattere ruvido, schivo: di quelli che spesso finiscono per entrare nel cono d’ombra degli allenatori. Con quei numeri viene notato dal Colonia e ne diviene una bandiera, arrivando anche in finale di Coppa Uefa contro il Real Madrid: l’andata è disastrosa, finisce 5 a 1 per le Merengues di Sanchez, Santillana e Valdano, al ritorno il primo gol lo segna proprio Bein, ma finisce solo 2 a 0 per i tedeschi e la coppa va ai castigliani.
Passa all’Amburgo dove gioca due stagioni e poi all’Eintracht dove diviene assoluto idolo di casa: una sua immagine ha adornato nel 2013 la metropolitana di Francoforte, venendo inserito tra i pilastri della Bahn Station Willy Brandt Platz per ricordare, appunto, i migliori giocatori che hanno indossato la maglia delle Aquile. E ancora oggi quando al Waldstadion qualcuno dell’Eintracht realizza un passaggio tale da mettere un attaccante a tu per tu col portiere dagli spalti si mormora “Ehi, ha fatto un ‘Bein'”. Beckenbauer quel sinistro e quella capacità di vedere un assist dove altri vedono un pallone appoggiato indietro lo ha notato: Kaiser Franz vuol da un lato svecchiare la nazionale del 1986, dall’altro portare maggior talento a una squadra tradizionalmente conosciuta per solidità e tenacia ma non certo per classe e spettacolarità. E dunque dentro Hassler, Moeller, Olaf Thon: ma il pupillo dell’ex Pallone d’oro è Bein.
In precampionato e nelle amichevoli Uwe gioca benissimo, in barba a chi in patria ne osteggia la presenza con la nazionale perché “difende poco”. Uwe sente la fiducia e segna in amichevole alla Cecoslovacchia con un capolavoro, e attira su di sé le attenzioni della Fiorentina, ma risponde picche, vuol restare all’Eintracht. In quel mondiale per Beckenbauer il titolare è lui: parte bene con la Jugoslavia, contribuendo alla vittoria per 4 a 1, fa meglio con gli Emirati Arabi segnando un gran gol, ma rimediando anche un infortunio: giocherà ancora un primo tempo con la Colombia, poi dovrà dire addio a quel mondiale. Rimedierà solo una secchiata d’acqua da Littbarski in ritiro, poiché addormentato nel letto di Voeller, vero destinatario dello scherzo del compagno.
Il suo ciclo in nazionale finirà di lì a poco: a differenza del Kaiser, Berti Vogts non stravede per Uwe, né Bein è uno che ama sgomitare. Si dedicherà al suo Eintracht, perdendo un campionato all’ultima giornata con una sconfitta sanguinosa in casa di un già retrocesso Hansa Rostok. Chiuderà la carriera in Giappone, col gran rimpianto per quel mondiale che avrebbe potuto giocare e vincere da protagonista assoluto, con la fiducia massima di Beckenbauer: ma non è uno che amava essere al centro dell’attenzione Uwe, le luci preferiva accenderle per i suoi compagni attaccanti con i suoi “tödlicher Pass“. Uno dei migliori calciatori della sua generazione, Bein, ma in pochi lo sanno: e a lui sta bene così.