Quando Nino Di Matteo disse ad Alfonso Bonafede che non intendeva accettare l’incarico come direttore degli Affari penali di via Arenula, il ministro rispose: “Dottore, ci pensi bene. Perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono“. “Una frase assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare, né allora e nè ora. Mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento“, ha spiegato il magistrato, ripetendo la sua versione dei fatti sui colloqui del giugno di due anni fa davanti alla commissione Antimafia. L’ormai nota vicenda della mancata nomina al vertice del Dipartimento amministrazione penitenziaria dell’ex pm di Palermo approda finalmente nei luoghi più adatti: le stanze di palazzo San Macuto. Luoghi in cui il ministro della giustizia dovrà presto tornare “urgentemente” come hanno chiesto alcuni commissari. Soprattutto dopo la ricostruzione, dettagliata e approfondita, fornita da Di Matteo alla commissione. Il 12 maggio scorso il guardasigilli aveva detto alla Camera: “Si continuano a cercare possibili condizionamenti evocando, in modo più o meno diretto, i vari livelli istituzionali. Una volta per tutte: non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Punto!”.
“Di Maio mi propose di fare il ministro” – Durante la sua audizione Di Matteo ha anche raccontato una notizia fino a oggi mai confermata: Luigi Di Maio gli propose di fare il ministro della Giustizia prima, e quello dell’Interno poi. In due incontri, uno a Palermo e uno a Roma, entrambi precedenti alle elezioni politiche del 2018 l’allora candidato premier propose al magistrato di entrare in un possibile governo dei 5 stelle. Ipotesi poi tramontata: il ministro della giustizia sarebbe diventato Bonafede, mentre al Viminale sarebbe andato l’alleato Matteo Salvini. “Successivamente – ha detto Di Matteo – io non ho mai chiesto perché non mi avessero cercato più perché io non ho mai chiesto niente a nessuno. Nel momento in cui vengo chiamato dal ministro Bonafede, però, io immagino che il ministro sappia che mi era stato proposto di fare una cosa da fare accaponare la pelle, cioè il ministro dell’Interno. Ecco perché poi quando mi si dice al mancato gradimento o al diniego, io non posso aver frainteso come qualcuno lascia intendere”.
“Mi propose di fare il generale subito o capitano dopo alcuni mesi” – Magistrato impegnato da 25 anni in indagini su Cosa nostra, i suoi legami con la politica e le stragi degli anni ’90, pm di Caltanissetta, di Palermo e della procura naziona antimafia, Di Matteo è da alcuni mesi consigliere del Csm. Il 4 maggio scorso finisce al centro di quello che è stato raccontato banalmente come uno scontro con Bonafede, quando telefona in diretta alla trasmissione Non è l’Arena su La7 per raccontare come nel giugno del 2018 avesse ricevuto dal guardasigilli la proposta di dirigere il Dap. Proposta ritirata senza spiegazione 24 ore dopo. E su questo che sta indagando la commissione guidata da Nicola Morra: l’Antimafia vuole capire perché il guardasigilli cambiò idea, preferendo a Di Matteo la nomina di Francesco Basentini al vertice del Dap. Oggi per cinque ore il magistrato siciliano ha ricostruito in modo dettagliato ogni momento di quella vicenda. “Fino ad allora – ha ricordato – io col ministro avevo scambiato solo conversazioni superficiali, in due o tre occasioni, solo convenevoli di rito”. Poi il 18 di giugno ecco che arriva la telefonata da Bonafede, che aveva giurato da ministro della Giustizia da poco più di due settimane. “Disse – è la ricostruzione dell’ex pm – che aveva pensato a me per due ruoli: o il capo del Dap, nomina che avrebbe prodotto una nomina dagli effetti immediati. O come direttore generale degli Affari penali, ma poiché il ministro uscente (ovvero Andrea Orlando ndr) aveva nominato la dottoressa Donati, questo incarico sarebbe stato disponibile per settembre se lui fosse riuscito a convincere la dottoresa a lasciare l’ufficio. Quella nomina, mi disse, avrebbe avuto per lui un alto valore simbolico”. In realtà la nomina di direttore generale degli Affari penali è soprattutto simbolica: era l’incarico di Giovanni Falcone, ma negli anni quell’ufficio ha subito profondi ridimensionamenti. “La proposta era sostanzialmente o di fare il generale subito e di sicuro. Oppure di accettare un ruolo eventuale e futuro di capitano se avesse convinto la dottoressa Donati ad abbandonare l’incarico”, ha sistetizzato Di Matteo.
“Il ministro mi disse per tre volte: scelga lei”- Il magistrato ha raccontato di aver cercato di prendere tempo. “Io all’inizio chiesi 48 ore di tempo per potere dare una risposta. Il ministro, però, mi specificò che aveva bisogno di una risposta veloce perché avrebbe voluto inoltrare al Csm la rituale richiesta di collocamento fuori ruolo. Era necessaria una risposta immediata perché avrebbe voluto sfruttare il plenum che si tiene di mercoledì. Quel giorno era lunedì e mi disse: 48 ore sono troppe“. Bonafede, nella ricostruzione di Di Matteo, ha fretta: vuole inviare la richiesta al Consiglio superiore della magistratura entro due giorni, quindi ha bisogno di una risposta prima di quel termine. Ma perché questa fretta se il posto da direttore degli Affari penali del ministero sarebbe stato libero, forse, solo a settembre? “La collocazione fuori ruolo – ha sottolineato infatti Di Matteo – poteva essere relativa solo all’incarico al Dap, perché l’incarico agli Affari penali non era disponibile. Presi atto di questa urgenza, dissi al ministro che l’indomani sarei andato a trovarlo al ministero. mi sembrò corretto al telefono accennare a una delicata situazione”. Cioè quella delle minacce provenienti da alcuni mafiosi detenuti che avevano letto sui giornali dell’ipotetica nomina del pm al Dap. Minacce contenute in una relazione del Gom della Polizia penitenziaria e di cui il guardasigilli era a conoscenza. “Io – racconta il magistrato – pensai in quella fase che il ministro stava dimostrando coraggio: voleva nominare me al Dap nonostante sapesse che il mio fosse un nome sgradito ai mafiosi detenuti“. I toni in quella chiamata per Di Matteo furono abbastanza chiari: “Il ministro mi disse: scelga lei quale incarico assumere. Me lo ha ripetuto almeno tre volte. Ha concluso la telefonato ripetendomi ancora: scelga lei. Chiusa la telefonata non ho avuto nessun dubbio. Il giorno dopo sarei andato a Roma nell’intenzione di accettare l’accettazione dell’incarico di capo del Dap”. Per Di Matteo guidare le carceri è un ruolo cruciale. “Una gestione corretta del sistema penitenziario – ha spiegato – poteva essere decisiva nella lotta alla mafia. Perché, tra le altre cose, permette di incidere nelle collaborazioni con la giustizia, che non devono essere inquinate da accessi non autorizzati dal personale dei servizi al carcere“.
“Bonafede disse che il capo del Dap ha solo rapporti coi sindacati” – Il 19 giugno del 2018 Di Matteo arriva in via Arenula alle 11 di mattina. A questo punto la ricostruzione del consigliere del Csm, da un investigatore molto esperto, diventa particolarmente dettagliata. “Ho un ricordo nitido perché l’ultima volta che ero entrato al ministero della giustizia risaliva al 6 febbraio del 1991, dopo aver superato il concorso in magistratura. Dopo i convenevoli di rito dissi subito al ministro che accettavo l’incarico al Dap. A quel punto, devo dire con una mia certa sorpresa, il ministro iniziò a dire che sì quello del Dap era un incarico importante, però, era un incarico che vedeva prevalenti degli aspetti che lui non vedeva confacenti alla mia pregressa esperienza”. Che tipo di aspetti? “In fondo, disse, il capo del Dap si occupa dei rapporti con i sindacati, con la polizia penitenziaria, delle gare d’appalto. Io mi permisi di evidenziare come la questione penitenziaria, del 41bis, abbia avuto un ruolo preponderante nelle stragi del 1993. Mi permisi di dire al ministro quanto fosse importante il Dap per la gestione dei collaboratori di giustizia. Dalle intercettazioni di Riina e Graviano si capiva come i mafiosi stragisti detenuti, anche quelli che ipotizzavano di collaborare, non lo facevano perché si aspettavano un alleggerimento delle condizioni carcerarie. Il ministro continuò a insistere e perché io accettassi l’incarico agli Affari penali, il ruolo che aveva avuto Falcone, ribadendomi però che doveva prima convincere la Donati”. Il ruolo che fu di Falcone, però, oggi non esiste più: quell’ufficio c’è ancora ma ha un potere molto limitato rispetto al passato. Di Matteo decide di mettere in luce questo aspetto: “Sottolineai – ha detto – che l’assetto organizzativo era cambiato. Falcone aveva un’interlocuzione diretta col ministro mentre l’attuale direzione generale è inquadrata in un dipartimento in cui è il capo che ha interlocuzioni col ministro. Mi disse che non era un problema perché il capo dipartimento, incarico per il quale lui aveva nominato il dottor Corasaniti, aveva una buona opinione di me. Io ero veramente sorpreso, perché ero rimasto un po’ stupito del ridimensionamento che il ministro faceva del ruolo e dell’importanza del Dap”.
“Non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono” – Stupore legato anche al fatto di aver saputo in quella stessa occasione che Bonafede aveva già un nome per il Dap: quello di Basentini. “Meno di 24 ore avermi fatto la proposta per il Dap, mi disse che aveva pensato per quell’incarico al dottor Basentini. Ed effettivamente io ho avuto modo di constatare che la richiesta di collocamento fuori ruolo di Basentini è del 19 giugno. Lo stesso giorno in cui io vado lì per portare la mia risposta alla sua proposta, il ministro invia la richiesta al Csm per Basentini. Io avevo manifestato le mie perplessità ad assumere la direzione generale degli Affari penali e il ministro mi invitò a riflettere, mi disse che a settembre mi avrebbe fatto sapere l’evoluzione della situazione. Quando sono salito in auto, pensai: altro che settembre, io non voglio nemmeno dare l’aspettativa che il ministro possa contare su di me”. Quindi arrivato in ufficio l’allora pm della procura nazionale antimafia telefona il guardasigilli (“mi era rimasto il suo numero in memoria dalla chiamata del giorno precedente”) per chiedere un incontro il mattino successivo. “L’indomani mattina dissi seccamente al ministro: non mi tenga assolutamente in conto per la direzione degli Affari penali. Il ministro insistette più volte, poi quando eravamo un piedi quasi sull’uscio mi disse una frase assolutamente precisa le cui parole io non posso equivocare. Mi disse: dottor Di Matteo ci pensi bene, perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengono. Io per un senso di correttezza istituzionale non chiesi chi avesse prospettato il problema al quale lui fece cenno: diniego o mancato gradimento. Io mai mi sono sognato di chiedere al ministro cosa fosse accaduto in quelle 22 ore”.
“Non ho parlato subito perché non volevo delegittimare il ministro” – Il magistrato ha raccontato di essere rimasto amareggiato da quell’incontro. “Io non ho mai chiesto né sollecitato alcunché al ministro o ad altri esponenti politici. Io non ho mai cercato nessuno perché ritengo che un magistrato non lo debba mai fare se vuole conservare la sua piena autonomia. Per questo ci rimasi male per quel dietrofront, visto che il ministro aveva dimostrato di sapere che quella mia eventuale nomina a capo del Dap era stata oggetto di protesta nel carcere e di un’iniziativa di 51 persone detenute al 41 bis che volevano protestare mettendosi davanti al magistrato di sorveglianza”. Nonostante tutto Di Matteo non rende pubblico l’accaduto, raccontandolo solo ai colleghi e agli amici più stretti. “Ovviamente io quell’amarezza me la sono tenuta per me. I fatti li ho raccontati a pochissimi colleghi e per due anni ho rifiuato più volte interviste sull’argomento. Non ho parlato di questa vicenda per ragioni istituzionali, nonostante avessi giudicato gravemente incomprensibile la decisione, non volevo comunque delegittimare il lavoro del ministro Bonafede e del capo del Dap Basentini”.
“Un malinteso? Dirlo mi fa apparire come uno che racconta balle” – A maggio, però, ecco la telefonata in diretta televisiva con la ricostruzione di quella proposta vecchia di quasi due anni. Un periodo lungo contestato da più fronti a Di Matteo in queste settimane. “Ho deciso di raccontare quell’episodio – ha spiegato il magistrato – peché sono accadute alcune cose che mi hanno indotto a parlare. Le rivolte dei detenuti, le scarcerazioni di detenuti per mafia, avevo letto sui media della circolare del 21 marzo, le dimissioni di Basentini e il fatto che iniziavano nuovamente a filtrare le voci di un incarico a me come capo del Dap”. Quindi la discussione finisce sul piccolo schermo: “Nella trasmissione televisiva si evocavano i fatti del 2018, si è detto che io e Bonafede non trovammo l’accordo, che le trattative non andarono in porto. Allora io ho ritenuto di raccontare la verità perchè quella vicenda non è personale, ma istituzionale”. Ma non è che per caso tra Di Matteo e Bonafede c’è stata una banale incomprensione? Il magistrato è netto: “Fare passare tutto per mie percezioni e malintesi non è corretto. Mi fa apparire come uno che racconta balle o uno che non ha capito il colloquio con il ministro della giustizia, che invece ho capito bene”. I commissari insistono: secondo Di Matteo le minacce dei mafiosi al 41bis hanno avuto un ruolo nella sua mancata nomina al Dap? Risposta: “Se avessi pensato che Bonafede non mi avesse più dato l’incarico al Dap a causa di eventuali pressioni dei detenuti mafiosi sarei andato a denunciare la cosa in una procura della Repubblica”. A questo punto resta da capire chi è che ha avanzato a Bonafede il “mancato gradimento” per la nomina di Di Matteo al vertice del Dap. Sempre che Bonafede non smentisca tout court l’audizione del magistrato. In ogni caso Di Matteo ha voluto porre l’accento su quello che per lui è un passaggio fondamentale: quello con Bonafede non è uno scontro. “Qui – ha detto – non c’è da fare pace perché non c’è stata guerra, non è una problematica di invidiuzze o di posti che si reclamano. Questa vicenda non è personale, ma istituzionale”. Poi ha chiuso con una domanda: “Quello che mi chiedo è: ma perché il ministro mi ha chiamato, perché mi ha esposto ancora e rispetto ai mafiosi che non mi volevano, mi hai fatto fare la figura di quello che viene chiamato e poi, lo dico in gergo mafioso, posato?”.