Quando Sam Rossetti lasciò Palermo per andare a cercare oro in America, forse sognava di innamorarsi di Caroline Sagaul della tribù Nak’azdli. Ma chissà se si sarebbe mai immaginato che i suoi figli, i fratelli siculo-nak’azdli Rossetti, sarebbero stati tra gli indiani d’America arruolati volontari con l’esercito canadese per liberare l’Europa dal Nazifascismo. Parteciparono entrambi allo sbarco in Normandia e per tutta la vita si chiesero che profumo avesse la Sicilia del papà. Quella di Jack e James (nella foto in evidenza) è solo una delle storie dimenticate che Matteo Incerti ha riportato alla luce nel libro “I pellerossa che liberarono l’Italia” (Corsiero editore), un racconto costruito tra la ricerca d’archivio e il passaparola degli eredi rintracciati nelle tribù indigene di Canada e Stati Uniti. Sono questi ultimi infatti, ad aver messo a disposizione i preziosissimi carteggi datati tra il 1943 e 1945: dentro si trovano le storie di centinaia di indiani d’America che scelsero di partire per il fronte e si trovarono in prima linea a difendere quegli stessi diritti che in patria erano loro negati. In coda un’appendice inedita: i luoghi di sepoltura in Italia dei 57 nativi americani arruolati nell’esercito canadese (51) e statunitense (6) caduti nel nostro Paese. Il libro sarà presentato domenica 21 giugno alle ore 16 è a Berceto (Parma) nel parco Tatanka Ioytaka-Toro Seduto.
La ricerca di Incerti inizia nella Monument Valley in Arizona nell’agosto 2018. Un giornalista si avvicina a una delle guide con una domanda che gli ronza in testa: ci sono indiani d’America che si arruolarono con gli alleati della Seconda Guerra Mondiale? La risposta è il primo segnale: “Devi andare più a Nord”. Inizia così un viaggio durato due anni che riempie taccuini e diari, fino a diventare un libro pieno di facce. La prima pagina è datata 4 luglio 1943: le onde dell’oceano si infrangono sulla prua della nave Circassia. Meta finale: le coste della Sicilia per “la più grande operazione navale mai effettuata”. L’ultima storia si svolge il 23 dicembre 2019 a Pofi (Frosinone) col ritrovamento del luogo di sepoltura esatto di Metis Florio Carriere. Il giornalista porta sulla tomba fiori “bianchi e rossi”, gli stessi “scelti da due gemelle, rimaste orfane del loro papà, un Ojibwa dell’Ontario, morto in Romagna nel settembre del 1944”. Nel mezzo, scorrono immagini e dialoghi come in un film che riproduce esattamente quei giorni lontani: lo sbarco in Sicilia e le decine di battaglie, da Agira alla Liberazione di Roma, fino allo sfondamento della Linea Gotica orientale in Romagna. Coinvolti furono, spiega l’autore, centinaia di indigeni di decine di tribù. Solo per citarne alcune: cree, mohawk, ojibwa, “piedi neri”, pawnee, creek, cherokee. Almeno cinquanta di loro sono morti sul suolo italiano e Incerti non solo li ha rintracciati, ma ne ha ricostruito la mappa.
Ma tra le pagine si trova molto di più di morti e battaglie. Quello di Wilmer Nadijwon ad esempio, è il racconto di un destino che accomuna una famiglia: “Il padre, veterano della Prima guerra mondiale, aveva sperato che almeno lui non partisse per il fronte. Wilmer glielo aveva promesso. Poi anche lui cedette”. Ma, “prima di arruolarsi, Nadijwon dovette sconfiggere un nemico più forte di qualsiasi esercito. Come tutti i suoi coetanei indigeni, a otto anni era stato strappato alla famiglia per essere rinchiuso in una delle tante Scuole Residenziali”. Come spiega l’autore, “si trattava di una rete di collegi istituita nel 1876, con l’emanazione dell’Indian Act, dove i nativi delle Prime Nazioni, Inuite Metìs venivano rinchiusi, separandoli dalle loro famiglie. Le scuole residenziali avevano il compito di ‘civilizzare’ i popoli nativi, separando i bambini dai genitori e impedendo la trasmissione della lingua e della loro cultura ancestrale e spirituale da una generazione all’altra”. Di questo Nadijwon parla con i commilitoni indigeni partiti come lui per l’Italia e racconta: “Andiamo in Europa a combattere i nazisti, ma cosa sono, se non luoghi di segregazione, quelli dove ci hanno chiuso da bambini per quasi sei anni? Io mi pisciavo addosso e mi costrinsero a dormire per anni da solo in lavanderia, dove il freddo mordeva ogni notte. Non ci chiamavano nemmeno per nome. Io, come tanti altri, ero solo un numero, il 79”. Tanti gli episodi di discriminazioni e violenze: Nadijwon racconta anche di abusi sessuali da parte di un prete quando era bambino (atti avvenuti nelle scuole residenziale e per i quali negli ultimi anni sono stati prima Papa Benedetto XVI e poi Papa Francesco a scusarsi). Anche per questo, pensavano i nativi, il sacrificio in Italia avrebbe potuto invertire la rotta. “Ci pensi? Se vinciamo la guerra cambierà tutto”. Gli risponde l’amico: “Se lo dici tu, fratello..”. E ribatte con l’angoscia di chi non sa cosa aspettarsi dal ritorno in patria e neppure se riuscirà a portare in salvo la vita.
Ma le paure di Nadijwon sono quelle di tanti altri nativi d’America, partiti per una guerra lontana e finiti tra le atroci sofferenze di un mondo che stava andando a picco. Tra questi c’è Henry Beaudry il cree dello Saskatchewan: sbarcato in Sicilia il 10 luglio 1943 fu catturato a Villa Prati di Bagnacavallo (Ravenna) il 14 dicembre 1944 e poi riuscì a fuggire dal lager tedesco di Moosburg dandosi alla macchia nei boschi nella neve per due mesi. Poi il pawnee dell’Oklahoma Brummet Echohawk che tratteggiò le sue azioni e quelle dei suoi commilitoni in Italia con la 45esima Divisione USA in decine di disegni a matita: i suoi eredi ne hanno concesso la riproduzione di quattro esemplari nel libro. La copertina è dedicata a Huron Eldon Brant, mohawk della riserva della Baia di Quinto nell’Ontario: il 14 luglio 1943 assaltò una postazione tedesca a Grammichele (Catania) uccidendo e facendo prigionieri trenta nemici. Brant, trovò poi la morte il 14 ottobre 1944 nella battaglia del borgo di Bulgaria, alle porte di Gambettola (Forlì Cesena) e oggi riposa nel cimitero delle forze del Commonwealth di Cesena. O, solo per citare ancora una storia, c’è infine Orville Johnston, oijbwa di Cape Croker, che combatté in Sicilia e poi in Romagna. Ebbe un figlio in Italia, che poi fu condannato a cercarlo invano tutta la vita. Le nipoti hanno aiutato a ricostruire la sua storia nel libro e, chissà, ora sperano di poter ritrovare le sue tracce. Sono storie di eroi dimenticati, quelle che Incerti ha riportato in vita: un vero e proprio atto sacro per gli eredi di questi uomini caduti nel silenzio. Tanto che l’autore è stato ufficialmente ribattezzato dalle tribù “Pa pa mi sut ki hiw – Soaring Eagle” (ovvero: Aquila Svettante). Perché solo uno di loro, avrebbe potuto dare agli indigeni dispersi gli onori che finalmente meritano.