Nell'intervista esclusiva web per Ilfattoquotidiano.it l'artista racconta di come ha vissuto il lockdown a Los Angeles, l'appello in difesa dei lavoratori fragili della musica, il bimbo dentro di sé, il mostro del passato che è riaffiorato ma ha allontanato e infine il lungo corteggiamento della tv. In attesa di festeggiare i 20 anni di carriera nel 2021, in autunno arrivano il docu-film “Ferro” e una “super sorpresa” musicale
Vent’anni di carriera nel 2021 per Tiziano Ferro. Sembrano lontani i tempi del ragazzino ventenne che con l’album “Rosso Relativo” conquistava i primi posti in classifica con il singolo “Xdono”, ponendosi nel firmamento della musica italiana e internazionale. Oggi l’artista ha 40 anni, è sposato, vive a Los Angeles e ha alle spalle 20 milioni di copie di dischi vendute nel mondo. I festeggiamenti sono già iniziati quest’anno con la sua partecipazione come guest star alle cinque serate del Festival di Sanremo, a ottobre-novembre uscirà il suo primo docu-film dal titolo “Ferro”, disponibile in streaming su Amazon Prime Video, mentre l’artista sta già preparando un nuovo progetto musicale che definisce “una bomba”.
Incontriamo Tiziano Ferro in un periodo storico difficile e complesso, che vede la pandemia mettere in ginocchio interi settori e naturalmente anche della musica. Proprio del settore musicale il cantautore di Latina si è fatto portavoce sin da subito, in pieno lockdown, con un appello alle istituzioni affinché dessero risposte certe, non solo per i concerti estivi da spostare al 2021, ma anche per sostenere e aiutare i lavoratori fragili dello spettacolo. Il giorno in cui lo incontriamo però è un giorno speciale per Ferro: il marito Victor compie gli anni.
Cosa hai regalato a tuo marito?
Ci facciamo sempre regali non materiali come, ad esempio, organizzare weekend fuori Los Angeles, cosa che, al momento, è impossibile a causa delle misure di sicurezza. Così gli ho regalato un buono per un viaggio da fare insieme, con la speranza che accada molto presto. Avevamo previsto una bella vacanza, al termine del mio tour. Poi sappiamo come sono andate le cose…
Come hai vissuto questo periodo di pandemia a Los Angeles?
Come dico sempre, la California non è l’America che ha 50 Stati individuali e individualisti, ognuno con una cultura diversa. La California è sicuramente una bolla, un posto di integrazione sociale, dove non si sentono le tensioni e la violenza come a New York o Chicago. La pandemia è stata affrontata subito dal Governatore Gavin Newsom, che sostanzialmente se n’è fregato del presidente Trump, quando minimizzava il problema. Qui il lockdown è scattato subito e, nel giro di qualche ora, in giro c’era il deserto. Senza bisogno di polizia né controlli, perché qui c’è la filosofia del rispetto della salute, della cura di se stessi e degli altri. Non abbiamo avuto, per fortuna, numeri disastrosi di vittime come a New York e in altri piccoli Stati. Ora c’è una timida Fase 2 con servizi essenziali sempre attivi, che offrono i loro servizi in loco. Sono molto felice di vivere qui, perché non c’è mai stata tensione, né crisi ospedaliera con scene drammatiche di morti. Indubbiamente c’è stata una gestione intelligente.
In questo momento l’America vive una fase difficile, il tema dell’antirazzismo è tornato prepotente, dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, in seguito ad un arresto. Qual è la tua opinione?
Ho passato dieci anni della mia vita in Gran Bretagna, un Paese che vive serenamente una realtà multirazziale, conseguenza di anni di colonizzazioni. C’è anche un rispetto profondo per le diverse etnie, se si pensa a quella indiana, che è molto presente. Qui, invece, la tensione si percepisce ed è comprensibile il risentimento, dopo anni di schiavitù e di grandi discriminazioni. Insomma, c’è ancora tanto bisogno di comprendere e riflettere, insieme, su questi temi.
Come ti è sembrata l’Italia, da lontano, durante il lockdown?
Anzitutto ho capito che i californiani adorano l’Italia in maniera spasmodica. Mi hanno chiamato tutti per sapere come andavano le cose e se potevano fare qualcosa, si sono mossi anche alcuni personaggi famosi con video che ho condiviso sui miei social. È stata alta la percezione che gli italiani siano state vittime sacrificali di questo virus. Abbiamo insegnato al mondo come reagire e abbiamo fatto vedere a tutti cosa sarebbe successo. Si è scatenato un grande amore verso il nostro Paese, tutti erano consapevoli del fatto che siamo presi alla sprovvista. Dal dolore è nato un movimento molto bello, fatto di grande rispetto e vicinanza. Mi sono sentito orgoglioso del nostro Paese, così capace di attirare a sé un’ondata di affetto straordinaria.
A proposito dell’Italia, ti sei speso molto perché il governo desse risposte certe per lo spostamento dei concerti e per tutelare i lavoratori fragili dello spettacolo. Ma non tutti hanno compreso, è un problema culturale?
Sì è un problema culturale, ma parte da noi. C’è un problema di base: il tema dei soldi. In Italia sono un argomento tabù, non si può mai sapere quanto si guadagna, quanto si versa allo Stato, non si dice e non si fa. Questo atteggiamento crea dei ‘non detti’ che fanno male, dimentichiamo che la cultura produce il 16.6% del Pil in Italia, che equivale a milioni di euro. È vero che la musica è un antidepressivo e lo è stato, durante la pandemia, ma indiscutibilmente è un settore che porta avanti questo Paese. Quindi non possiamo non parlare del valore della musica: non bisogna avere paura di parlare di numeri giganteschi. Sono cose che ho detto da Fabio Fazio, anche se il mio messaggio è stato manipolato. La musica, quando c’è stato bisogno di sostenere la Protezione Civile, si è mobilitata in massa e subito: la serata evento ‘Musica che unisce’ ha raccolto quasi 8 milioni di euro. Cifre importanti che dimostrano che non siamo dei menestrelli. Sono iniziative importanti che rifaremmo ancora e mille volte. Quando devo dichiararmi a favore di una categoria come la nostra, che contribuisce a mandare avanti il Paese, devo poterlo fare, anche se capisco e comprendo che a livello emotivo ed economico, ci sono tanti altri settori toccati da questa pandemia.
Si è parlato tanto dei voucher per il rimborso dei biglietti dei concerti annullati, e in Italia sta montando la polemica. Tu ritieni sia una soluzione giusta?
Pensa che ho dei voucher perché sono stati annullati tutti i voli che avevo prenotato per l’Italia e per i vari spostamenti… Ma faccio parte di un mondo che ha zero voce in capitolo su questo tema. Da una parte bisogna proteggere il pubblico, dall’altra le agenzie live. Una cosa è certa: questa situazione ci ha preso tutti alla sprovvista, va ripensato tutto il sistema e per gradi. Vanno smussati gli angoli con la necessità di pensare a come gestire questa situazione, se durerà davvero un anno, pianificando anche piani B per ogni evenienza e sotto qualsiasi punto di vista.
All’Open Week Master dell’Università Cattolica hai dichiarato: “La musica nasce dal silenzio, e il silenzio è stata la colonna sonora dei miei sforzi. Ma adesso il mondo è cambiato, è rumoroso…”. Si stava meglio, quando si stava peggio?
E ho continuato dicendo che oggi si hanno tanti mezzi e non c’è più solo il fax! Non voglio sembrare come le buonanime dei miei nonni, ma penso realmente che bisogna faticare, sudarsi ogni piccolo tassello dei propri traguardi. Oggi abbiamo il telefonino che entra in azione quando c’è bisogno di correzioni automatiche, quando scriviamo dei messaggi o della mail. Però non dobbiamo disabituarci a scrivere a mano. È un esempio, per dire che la disciplina e l’educazione sono importanti per la costruzione della dignità del proprio mestiere. Non è più il tempo degli ‘scappati di casa’, oggi possiamo contare su un grado di formazione elevato, che consenta di mettere in circolo professionisti seri.
Un quotidiano ha messo in discussione la tua presenza come testimonial, titolando: “Un gay per l’Ateneo dei preti, non c’è più religione”. Qual è stata la tua reazione?
Forse mi sarei soffermato sul fatto che semplicemente è stato chiamato un ragazzo, e non un estremista religioso. Sono cattolico, laureato, parlo tre lingue, faccio questo mestiere da vent’anni e ho venduto oltre 20 milioni di copie nel mondo. E poi sì, sono anche omosessuale. Ma suppongo che mi abbiano chiamato perché sono un ragazzo – sottolineo ragazzo – che si è impegnato tanto nella vita nell’ambito della comunicazione.
Passiamo alla musica. Hai intervistato Lady Gaga, cosa ti ha colpito di lei?
Se l’amavo come artista, devo dire che, come persona, ha superato tutte le mie aspettative. Lei è di una dolcezza disarmante, mi ha chiesto subito se volessi qualcosa da mangiare e da bere, e poi mi ha chiesto quanti anni avessi. Le ho risposto che ne avevo compiuti 40 e lei in italiano mi ha risposto: ‘Ma sei un bimbo (ride. Ndr)’!
“Balla per me” è il tuo nuovo singolo con Jovanotti, uno dei tuoi miti. Il primo disco italiano che hai comprato era suo. Cosa si prova quando un sogno si concretizza?
Per farti capire la sensazione ti racconto questo aneddoto. Non so quante volte ho messo in macchina le sue canzoni, cantavo e ascoltavo quei brani anche 800 volte. Nella mia cameretta ripetevo a memoria i brani del disco ‘La mia moto’ e vedevo riflessa la mia immagine sulla piccola televisione che avevo sulla scrivania. Mi immaginavo lì, dentro la tv a cantare le canzoni di Lorenzo. ‘Balla per me’ va oltre mia immaginazione. Sono felice e commosso per questa collaborazione, che lancia anche un messaggio importante sula voglia di liberare la mente con il movimento e con il corpo. Credo siano dei concetti molto attuali, specialmente in un momento come questo.
Hai partecipato a Sanremo, hai co-condotto con Laura Pausini “Due” nel 2009, hai dimostrato di essere adatto per un one man show. La tv ti corteggia?
Sì. Il primo che mi ha corteggiato è stato Bibi Ballandi, un grande uomo, generoso che ha prodotto importantissimi spettacoli televisivi e che trasmetteva una passione infinita per quello che faceva. Bibi mi ha corteggiato tantissimo, mi voleva in tv. Dieci anni fa mi diceva ‘tu non capisci, tu spaccheresti in tv!’. L’ultima volta l’ho visto nel 2017 dietro le quinte dello spettacolo di Virginia Raffaele ‘Facciamo che io ero’. C’eravamo quasi, mi aveva convinto, purtroppo poi è andato via…
Quindi è una porta chiusa quella della televisione?
No. C’è un problema di fondo: non c’è l’idea. Onestamente non me la sento di fare degli speciali musicali, che già hanno realizzato molto bene tantissimi altri miei colleghi. A me piace la televisione, non lo nego, però vorrei farla se ho qualcosa da dire, se ho una idea da condividere e sviluppare, che al momento non c’è. Io credo che quando ti lanci in una avventura tua, che è nata con te, la porti fino in fondo con onestà e senza ansia. Alla fine ti rimangono in mano la verità e l’esigenza di fare una cosa che ti fa sentire libero rispetto ai risultati televisivi. Invece se ti lanci in un progetto non tuo ti senti forzato e, secondo me, è impossibile viverla con la stessa onestà. Sanremo è stata una finestra strana, non esiste Sanremo se non c’è un po’ di bagarre, ma in quel caso era un progetto dove non avevo delle responsabilità. Sono stati cinque giorni bellissimi, che solo un matto, schizzato di testa, come me poteva fare. Per me è stato un atto di coraggio.
Quasi dieci anni fa cantavi: “Ma non trovo più il bimbo dentro, che rido ancora senza un senso e navigo distratto e attento. Ingenuo ma con la testa o tutto o niente, o sempre o basta”. Che fine ha fatto oggi quel bimbo?
Proprio l’altro giorno mentre stavamo facendo delle cose a casa, Victor mi ha detto ‘vivere con te è come vivere con un bimbo di 13 anni, non so se avremo dei figli, ma se li avremo li rincoglionirai, talmente sei ragazzino! (ride, ndr)’. L’essere giocoso c’è sempre dentro di me, è una questione di DNA, me l’ha trasmesso mia madre, che ha un senso dell’umorismo sarcastico. C’è sempre quel momento in cui scoppio a ridere. Oggi non ho più l’impeto e il fastidio dei vent’anni, quando non sai chi sei, cosa vuoi e sei alle prese con una serie di catastrofi. Alcune cose si sono calmate dentro di me, ma sono molto felice di aver preservato la mia parte infantile. Ho avuto nella vita molto di più di quello che mi aspettassi, per questo ho mantenuto lo stesso entusiasmo e l’istinto dei miei vent’anni.
Qualche anno fa ti definivi “solitario, permaloso, viscerale, uno che ha sempre dei tormenti in testa, e non va tanto d’accordo con l’esposizione, col successo, con le aspettative”. Come vanno adesso le cose?
Questo lockdown ha tirato fuori vecchie cose negative, mie personali. Ha tirato fuori la mia voglia di isolamento e non avere a che fare con gli altri. Ho un po’ rivisto il ‘mostro’, che è rimasto nascosto nell’ombra in questi anni e l’ho abbracciato come scusa per non farlo più tornare. Lo conosco bene, sa essere più spaventoso e quando è possibile torna. Lui ha alimentato le mie fragilità, il mio dolore e le mie insicurezze ed è pericoloso perché crea poi un cortocircuito di paranoie. Gli amici e l’amore mi hanno trascinato fuori dal guscio, e non parlo solo del coming out, parlo anche del pubblico che mi ha accompagnato in questi 20 anni di carriera per mano, fino a farmi essere l’uomo che sono oggi. A 40 anni non ho più paura di dire le cose come stanno: o sei con me o contro di me, non importa.