Il Tar del Lazio ha respinto il ricorso presentato dall’ex Procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, sulla sua mancata riconferma da parte del Consiglio superiore della magistratura al vertice della Procura toscana. Il 24 ottobre scorso il Csm aveva deciso, con una delibera apposita, di non confermare Rossi per avere mantenuto l’incarico di consulenza al Dipartimento affari giudiziari della Presidenza del Consiglio durante i governi Letta e Renzi anche dopo l’avvio dell’indagine su Banca Etruria, nella quale Rossi avrebbe potuto indagare sul padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi. Dopo il ricorso di Rossi, a gennaio il Tar del Lazio aveva sospeso la delibera del Csm con il quale veniva bandito il nuovo concorso, ma la decisione nel merito è arrivata venerdì dopo l’ultima udienza del 10 giugno: secondo i giudici amministrativi la decisione del Csm di non riconfermare Rossi è legittima. L’ex Procuratore di Arezzo annuncia il ricorso al Consiglio di Stato: “È una sentenza ingiusta contro la quale farò ricorso”, si è limitato a commentare.
Il plenum del Csm, su relazione di Pier Camillo Davigo, aveva deciso a larga maggioranza di non riconfermare Rossi perché, mantenendo l’incarico di consulenza a Palazzo Chigi, avrebbe compromesso “almeno sotto il profilo dell’immagine” il necessario requisito “dell’indipendenza da impropri condizionamenti”. Nella sentenza di venerdì, il Tar ha respinto il ricorso di Rossi che faceva leva sulla correttezza delle proprie indagini: “Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – scrivono i giudici amministrativi –, le modalità di svolgimento delle indagini penali non hanno assunto un ruolo ‘centrale’ nell’elaborazione motivazionale del Csm”.
Rossi non era stato riconfermato anche perché accusato di aver tenuto una condotta “non trasparente” nelle comunicazioni con il Csm: “Oggetto della valutazione dell’organo di autogoverno – si legge nella sentenza del Tar – non è stata l’opportunità delle scelte investigative svolte dal ricorrente nell’ambito dei procedimenti di indagine, quanto l’inopportunità della scelta compiuta dal ricorrente di non comunicare allo stesso Csm il mutamento del contesto nel quale tale ultimo incarico si stava svolgendo, contravvenendo ad un obbligo di trasparenza e correttezza”. Infine “proprio l’incarico extragiudiziario e le sue modalità di espletamento sono stati oggetto dell’analisi del Csm, con ampia e congruente motivazione, priva delle illogicità delibabili nella presente sede e idonea a controbilanciare, in senso negativo, i pur favorevoli pareri, comunque richiamati nel provvedimento impugnato”.
La conseguenza della sentenza è che Rossi non tornerà procuratore capo di Arezzo, carica oggi occupata ad interim da Luigi Bocciolini, e viene annullata automaticamente la sospensiva del concorso ottenuta a gennaio. Per evitare che venga nominato un successore, Rossi dovrà presentare una nuova richiesta di sospensiva al Consiglio di Stato, ma se anche i giudici di Palazzo Spada dovessero respingere il suo ricorso il pm sarebbe declassato a sostituto procuratore. Con ogni probabilità chiederebbe il trasferimento ad altro ufficio.
Negli ultimi anni, prima da pm e poi da procuratore, Rossi si è contraddistinto per alcune indagini che hanno avuto rilievo nazionale nonostante la piccola procura locale. Dopo la formazione a Mantova e poi a Siena, Rossi era arrivato ad Arezzo nel 1997 e nel 2005 ha portato avanti una delle più grosse inchieste che si ricordino in città: quella su “Variantopoli” che portò alla caduta del sindaco di centrodestra appena rieletto, Luigi Lucherini. Di Rossi si ricordano anche le inchieste sul crack di Eutelia spa, grosso gestore telefonico, sui reati fiscali nei confronti di Licio Gelli e infine quella sulla giovane Martina Rossi, la 20 enne di Genova morta nel 2011 cadendo da un balcone di Palma di Maiorca. Poche settimane fa, sul caso della giovane ragazza, è arrivata l’ultima delusione di Rossi: dopo la condanna a 6 anni di due giovani di Castiglion Fibocchi accusati di tentata violenza sessuale e morte per conseguenza di un altro reato, a inizio giugno la Corte d’Appello ha assolto entrambi perché “il fatto non sussiste”.