Nel 1962 un giovanissimo Mario Vargas Llosa ventiseienne fu mandato da l’Expreso, un quotidiano locale di Lima, ad intervistare un mostro sacro della letteratura, Julio Cortázar. Con voce intimidita da quello che era in quegli anni lo scrittore più popolare dell’America Latina il giovane cronista voleva chiedere un consiglio al grande maestro, ma non si azzardava, e allora pose la domanda facendo finta di niente, oggi avrebbe detto “chiedo per un amico”. Ecco il dialogo:
Se un ragazzo venisse a trovarla e le chiedesse: “Voglio diventare scrittore, mi dica cosa devo fare”, lei che risponderebbe?
Cortázar rispose così:
A mo’ dei maestri zen, cercherei di rompergli una sedia sulla testa. È possibile che il giovane sudamericano capisca cosa c’è oltre la sediata, ma se, nonostante tutto, la risposta non gli fosse chiara, gli direi che il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia letteraria dimostra la mancanza di una vera vocazione. Potrebbe anche darsi che la sediata sia mortale e allora ci sarebbe un epigono in meno.
Mario Vargas Llosa vincerà poi il Nobel per la letteratura, non sappiamo se fu perché sopravvisse alla sediata di Cortázar.
È possibile insegnare a scrivere? Il dibattito è aperto, ed è molto controverso. Se negli Usa le scuole di scrittura sono una tradizione, e non esiste autore che non abbia frequentato una scuola, spesso per poi tornare a insegnarci, come accadde a David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Jonathan Safran Foer, Jumpa Lahiri.
Negli Usa oggi è difficile che sia pubblicato un romanzo di un autore non uscito da una scuola. In questi giorni sto leggendo Ohio di Stephen Markley, appena pubblicato in Italia da Einaudi (forse lo recensirò la prossima volta perché mi sta piacendo) e la sua biografia è una riga: Stephen Markley si è diplomato all’Iowa Writer’s Workshop, questo è il suo primo romanzo.
In Italia invece il discorso è molto diverso. È uscito in questi giorni un saggio di Vanni Santoni intitolato La scrittura non si insegna (minimum fax) in cui lo scrittore toscano racconta una contro-storia della scrittura creativa. In Italia gli oppositori alle scuole di scrittura sono stati molti fin da subito, come racconta Santoni, “è una cosa assolutamente sbagliata” diceva Mario Soldati; “Meglio pensare a scuole di lettura” scriveva Luigi Malerba; “Si possono dare consigli, ma non insegnare a scrivere” proseguiva Natalia Ginsburg.
Tra i favorevoli invece c’erano Fruttero e Lucentini che dicevano fosse “una normale materia di studio” e poteva essere trattata come le altre. Il maggiore sostenitore dell’insegnamento della scrittura in Italia sarà poi Alessandro Baricco che quando fondò la scuola di scrittura Holden a Torino nel 1994 disse: “Magari sono matto, ma secondo me, una scuola di narrazione la dovrebbero fare anche i dentisti, o gli avvocati, o i vigili urbani. Credetemi, sarebbero dentisti, avvocati e vigili urbani migliori”.
Se in Usa le scuole di scrittura sono tutte legate alle università il panorama italiano è più anarchico. Oltre alla già citata Holden di Torino, ci sono la Belleville a Milano di Giacomo Papi e Luca Sofri, la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi (autore anche di diversi manuali molto ben curati), Molly Bloom a Roma fondata da Emanuele Trevi e Leonado Colombati, Bottega Finzioni a Bologna fondata da Carlo Lucarelli da cui poi si è distaccato. Si avvalgono tutte di professionisti stimati, ma hanno approcci molto diversi tra loro.
Secondo i detrattori il rischio più grande per chi frequenta una scuola è uscirne con una scrittura “normalizzata”, meno personale e più standardizzata. Questa critica è stata spesso rivolta alla letteratura contemporanea americana, in cui i thriller vengono confezionati seguendo un modello molto standardizzato che li rende molto simili tra loro.
Io penso che a omologare le scritture sia soprattutto il mercato, o meglio, l’idea che gli editori e gli scrittori hanno di cosa può vendere e cosa no, che li vincola a generi e modalità narrative “normalizzate” e quindi anestetizzate. Capita però, ogni dieci o venti anni, che ci sia un libro “sbagliato”, secondo quei canoni, che ottiene un grandissimo successo e ribalta i criteri. Uno di questi fu Il nome della rosa di Umberto Eco, uscito esattamente 40 anni fa.
Di regole e consigli per gli aspiranti scrittori ce ne sono tanti. Raymond Chandler per esempio ne scrisse dodici, anche se in nessuno dei suoi romanzi è poi riuscito a rispettarle, ma forse le regole servono proprio a questo, perché come diceva Eco: “Occorre crearsi delle costrizioni, per potere inventare liberamente.”