Nella città che cerca di rinascere dal collasso delle infrastrutture e dalla crisi pandemica, un grande attore porta a termine il film iniziato 35 anni fa. Franco Leo è un pezzo di storia del cinema italiano. La sua carriera, iniziata con le “canzoni da film” dirette da Luis Enriquez Bacalov, e proseguita , al fianco del giovane Klaus Kinski, con i western all’italiana e i film di Gian Luigi Polidori, Damiano Damiani, Dario Argento, Peter Greeaway e Pietro Marcello, ha attraversato anche la tv di Bolchi e Castellani e vanta un lungo sodalizio teatrale e cinematografico con Carmelo Bene.

In una Liguria squassata prima dallo tsunami del 2018, poi dal collasso dei ponti e ora dalla pandemia economica, il grande vecchio del cinema italiano ha deciso di registrare a Genova, dove vive, una straordinaria performance da attore: un corto che è insieme una sfida al destino e un ponte lanciato ai posteri. Posso accennare la trama solo a grandi tratti perché, se rivelassi il plot, il protagonista estrarrebbe una delle pistole a tamburo dei suoi western e mi ridurrebbe a un colabrodo.

In una valle arcaica, che potrebbe essere in Liguria come in Bretagna, vediamo un uomo maturo che cerca uno spazio di riflessione per sfuggire al rumore della civiltà e, addentrandosi in luoghi impervi, si chiede se , alla sua età, sia meglio augurarsi “un rapido declino o un’esistenza rinnovata e interminabile”. In una casa di pietra apparentemente abbandonata, in cui lo spinge la tempesta, il protagonista scopre un antico testo di Antonio Pigafetta La relazione del primo viaggio intorno al mondo e non riesce a staccare lo sguardo dalle illustrazioni. Quasi rispondendo ad un appuntamento, appare a un tratto un “homo selvaticus” che – come ricordano i lettori del racconto che ha ispirato il film (The picture in the House, H. P. Lovecraft, 1920) – inciderà la svolta più radicale nella emotiva e fisica del protagonista.

Il film è un viaggio nel tempo anche dal punto di vista produttivo, perché le prime scene vennero girate 35 anni fa. Nella primavera del 1985, dopo aver stampato una copia lavoro, destinata al montaggio, la lavorazione, che completava la sceneggiatura originale, si interruppe e il materiale girato andò smarrito. Fu ritrovato nel 2010 e, con la complicità di alcuni amici, ne fu fatta una copia digitale. Nel 2020 vengono girate altre scene e il film viene finito.

Franco Leo è sempre lo straordinario protagonista della storia, ma il Tempo – 35 anni – è diventato la sua controfigura, ha scavato la sua faccia ed è entrato nel plot spostando la sceneggiatura originaria su un altro piano.

Il film è un viaggio nel tempo anche per Gianni Di Nino e Danilo Marabotto che ne firmano sceneggiatura, regia e fotografia: con questo corto tornano per un attimo al cinema dopo una vita spesa in televisione. Entrambi, infatti, iniziarono come operatori cinematografici della sede Rai della Valle d’Aosta ed entrambi girarono le prime immagini del film 35 anni fa.

L’originario 16mm colore Kodak della copia lavoro a luce unica si è trasformato, nell’edizione finale, in un cupo bianco e nero, mentre le musiche del M° Roberto Kriscak accompagnano e dilatano l’atmosfera claustrofobica del film. L’edizione finale, curata da Gianni Centonze, attenua abilmente l’incompletezza del materiale originario e valorizza questa nuova versione del famoso racconto di H.P. Lovecraft diventato, nel tempo, un classico banco di prova per aspiranti registi.

Il film è patchwork, un collage di tecniche diverse mischiate con la stessa libertà con cui Basquiat mischiava colori e materiali diversi (compresi gli avanzi dei suoi pasti). Vediamo primi piani e luci che ricordano i grandi sceneggiati della tv di Bolchi e Castellani, antiche stampe mescolate a immagini reali, trucchi e “lanterne magiche” che evocano i fratelli Lumière e nel contempo scopriamo un film “giapponese”, che ti costringe a riflettere come una katana sguainata.

Il film è un piccolo capolavoro realizzato a più mani anche in senso letterale: Amerigo Calandri, il nipote di Franco Leo avviato a una carriera da attore, ha prestato le sue per sfogliare le pagine del libro fatale, facendo da “controfigura” di quelle del nonno che sarebbero apparse troppo vecchie rispetto a quelle delle immagini iniziali girate 35 anni fa. Andrea Moretti, che fa il commesso in un grande magazzino, ha prestato le sue mani erculee, come controfigura dell’Homo Selvaticus, che all’epoca era interpretato da un fotografo genovese molto noto Lino Burlando, scomparso da tempo. Anche in questo senso il film è un vero castello di destini incrociati.

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