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Usa, Trump prova a ripartire dal comizio di Tulsa. Dal crollo alle elezioni di midterm alle proteste per Floyd: la lunga crisi del presidente

Quando entrerà nell’arena, salutato da una folla di 20mila persone, l’obiettivo sarà soprattutto uno: ridare slancio a una presidenza che appare sempre più spenta e disperata. In questi 4 anni si sono sommati errori e sconfitte che ora pesano sulla rielezione, dal Russiagate fino alla (mancata) gestione degli scontri razziali. Con un precedente storico: Herbert Hoover

Tra poche ore, sabato sera, Donald Trump salirà sul podio di un’arena di Tulsa, Oklahoma. L’evento, programmato da settimane, doveva segnare il ritorno in grande stile del presidente. Dopo i mesi più bui del coronavirus, il ritorno di Trump ai comizi – quindi in modalità da “combattente”, quella che lui predilige – era il modo per affrontare con più fiducia la campagna per la rielezione. In realtà, le cose non sono andate secondo le aspettative. Quando Trump entrerà nell’arena di Tulsa, salutato da una folla di 20mila persone, l’obiettivo sarà soprattutto uno: ridare slancio a una presidenza che appare sempre più spenta e disperata.

Nel giro di pochi mesi, il futuro politico di Trump si è come schiantato. L’ultimo sondaggio di Fox NewsJoe Biden in vantaggio su Trump di ben 12 punti alle prossime presidenziali. Il 55% degli americani disapprova l’operato del presidente. Lo scarso entusiasmo del Paese si riflette all’interno della Casa Bianca. Mark Meadows, il nuovo chief of staff di Trump – il quarto dall’inizio del mandato – ha confessato in privato di essere rimasto colpito dalla rassegnazione che domina nell’amministrazione. Solo la settimana scorsa ai membri dello staff sono stati dati gli obiettivi per il 2021 – come se il 2021 fosse un miraggio. Trump appare sempre più isolato, di pessimo umore. Se la prende con “quella fottutissima gente”, i giornalisti, accusati di attaccarlo sempre e comunque, di non trovare mai una ragione positiva alla sua azione. Gli rimangono i tweet, quasi sempre rabbiosi, i richiami alla “legge e all’ordine”, gli appelli al mondo conservatore perché si schieri con lui a novembre.

Le ragioni del malessere sono antiche. È almeno dalla riforma fiscale di fine 2017 che questa amministrazione non riesce a far passare un provvedimento di ampio respiro. Dopo di allora ci sono stati il crollo elettorale repubblicano alle elezioni di midterm 2018, mesi passati a combattere sul Russiagate, la richiesta di impeachment sull’Ucraina; poi il coronavirus e la pesante crisi economica, infine gli scontri razziali più drammatici degli ultimi cinquant’anni. Era impossibile che questo seguito di eventi tragici, polemiche, rovesci elettorali non intaccasse un presidente che soprattutto sul senso di imbattibilità ha fondato la sua carriera politica. Loser, fallito, perdente, sfigato, è l’epiteto con cui spesso Trump ama bollare gli avversari. Il timore è che l’ombra della sconfitta si stia ora pericolosamente allargando sulla Casa Bianca. Lo stesso Trump se ne rende conto e nei giorni scorsi ci ha persino scherzato. Parlando del boom di vendite di camper, ha detto: “Magari me ne compro uno anch’io. Magari me ne torno a New York con la First Lady”.

C’è soprattutto un episodio che ha turbato e indispettito: le sconfitte che l’amministrazione ha incassato negli ultimi giorni alla Corte Suprema su omosessuali e immigrazione. Trump ha dedicato grande attenzione alla composizione della Corte. Ha nominato due giudici saldamente conservatori – Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh – oltre a una serie di giudici altrettanto conservatori per i tribunali federali. Il presidente sa che questo è uno dei temi più sentiti dalla sua base: spostare a destra, attraverso l’amministrazione della giustizia, il baricentro della società americana. Le grandi speranze si sono però infrante questa settimana. Proprio il giudice Gorsuch, che lui ha nominato, ha scritto la sentenza che tutela i diritti della comunità LGBTQ. Un altro giudice conservatore, il presidente della Corte John Roberts, è stato il voto decisivo nella risoluzione che permetterà ai Dreamers di restare sul suolo americano. Il presidente è immediatamente corso su Twitter, parlando di “decisioni orribili che esplodono come colpi di fucile in faccia a coloro che si definiscono con orgoglio repubblicani e conservatori”. L’ira non cambia le cose. Trump ha rimediato sconfitte brucianti su due tra le questioni cui cristiani e conservatori tengono di più.

È però la gestione delle proteste seguite all’omicidio di George Floyd il vero punto di non ritorno per le sue fortune politiche. La Casa Bianca ha sottostimato la vicenda. Il presidente pensava di aver detto tutto quello che doveva il giorno del lancio dello SpaceX. “La morte di Floyd è una tragedia grave… che non avrebbe mai dovuto succedere”, disse, aggiungendo però che “le violenze dei gruppi della sinistra radicale” andavano fermate. Quelle parole non hanno avuto alcun effetto. Troppo deboli, rispetto all’enormità della tragedia e alla vastità del problema razziale negli Stati Uniti. In realtà, a partire dai momenti successivi alla morte di Floyd, quasi ogni mossa di Trump è apparsa troppo debole o inutilmente provocatoria. Aver chiamato “feccia” i dimostranti. Aver invocato contro di loro esercito, cani e fucili. Essersi nascosto nel bunker della Casa Bianca. Aver fatto sgomberare la strada da dimostranti pacifici per poter inscenare una parata fino a una chiesa, con foto finale e Bibbia in mano sortita dalla borsa Max Mara della figlia Ivanka. Praticamente ogni gesto, ogni dichiarazione hanno trasmesso un sentimento di inadeguatezza, incomprensione, vacuità.

Negli ultimi giorni è arrivato l’ordine esecutivo, con cui Trump limita l’uso del “chokehold” e crea un database in cui registrare eventuali abusi degli agenti di polizia. Una misura richiesta da molti tra i suoi collaboratori e da ampi settori del partito repubblicano, che però arriva troppo tardi e che appare debole, incapace di dare vere risposte alle proteste. L’ordine esecutivo è del resto, in se stesso, una prova di debolezza. Non è ovviamente destinato agli afro-americani: il presidente conquistò nel 2016 solo l’8 per cento del voto nero e gli ultimi eventi gli hanno alienato ancor di più, se possibile, quella comunità. L’ordine esecutivo è invece destinato ai bianchi moderati, agli indipendenti, che assistono disorientati agli scontri razziali per le strade d’America e che non gradiscono la conflittualità estrema, le fiammate di rabbia e violenza che il presidente, con parole e gesti, finisce per suscitare.

In molti, nelle ultime settimane, hanno paragonato il Trump 2020 a Richard Nixon 1968. Come Nixon nel ‘68, anche Trump nel 2020 si presenta a un’elezione sulla scia di drammatici scontri razziali e con una piattaforma di ‘legge e ordine’. Come Nixon più di 50 anni fa, anche Trump oggi cerca di legare la Southern Strategy, l’appello ai bianchi del Sud, alla frustrazione e alle paure dei bianchi del Nord. C’è però una differenza sostanziale. Nixon era, nel 1968, il presidente che cercava di salire alla Casa Bianca, che si presentava come restauratore dell’ordine violato. Trump nel 2020 è chi sta alla Casa Bianca da quattro anni e che non è stato in grado di assicurare quell’ordine. C’è allora un altro parallelo che è possibile ritrovare nella storia americana. Quello con Herbert Hoover, il presidente che nel 1932 mandò le truppe contro i veterani della prima guerra mondiale, che protestavano davanti al Congresso per ottenere i finanziamenti promessi. Le immagini di dimostranti pacifici travolti da soldati a cavallo e mezzi pesanti, insieme alla devastazione creata dalla Grande Depressione, furono fatali per Hoover, che perse le elezioni contro il governatore di New York, Franklyn D. Roosevelt. Oggi ci sono state altre strade sgomberate con la violenza e c’è un’altra crisi economica. Non un buon viatico per Donald Trump.