Ilfattoquotidiano.it compie oggi 10 anni. Lo fa con una festa tutta in diretta streaming con ospiti e dibattiti che occuperanno un palinsesto lungo un giorno, dalle 10 in poi: dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte (che sarà intervistato dal direttore Peter Gomez) al procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. E poi Elly Schlein, Roberto Mancini, Fedez (qui tutto il programma della giornata). Quello che segue è il racconto della nascita de ilfattoquotidiano.it, il 22 giugno 2010: a scriverlo è proprio il direttore Peter Gomez. L’articolo è uscito sul numero del settembre scorso del mensile del Fatto, FqMillennium, che celebrava i dieci anni del giornale in edicola. “A ripensarci ora, vedendo come sono poi andate le cose, quell‘inizio in salita non poteva che portarci bene” scrive Gomez. Ecco il retroscena di perché e come iniziò così “in salita” il lungo cammino del fatto.it.

È il 24 giugno del 2010. L’Italia sconfitta dalla Slovacchia esce dai mondiali del Sudafrica. Ma il sito non va. Non siamo in grado di pubblicare niente. I lettori, quando riescono a caricare l‘homepage, vedono quella del giorno prima o, più spesso, un cartello: “Aiuto! Siamo in troppi!”.

Squilla il telefono. È Nuccio Ciconte, il caporedattore centrale di Roma: “Peter, non dai il risultato della partita?”. “Nuccio, porca miseria, ma lo volete capire che qui non funziona un cazzo!” gli urlo, prima di riuscire a calmarmi. Ecco, visto che siamo in clima di decennali e celebrazioni, forse è il caso di ritornare coi piedi per terra. Di cominciare da qui. Da un epic fail. Da una disfatta: il lancio del sito. Andiamo on line il 22 giugno, annunciati da una cover di quattro pagine del giornale. Pensiamo di spaccare il mondo e invece il mondo spacca noi. Qualche minuto dopo il varo il nostro vascello naufraga. La pagina scompare, tutto è irraggiungibile. Sugli schermi dei pc compare beffarda la scritta: “Guru meditation”. Un modo carino, evidentemente ideato da informatici sotto effetto di sostanze psicotrope, per dire quello che avevo spiegato imprecando a Nuccio: “Qui non funziona niente”.

Si, perché dall’azienda che aveva curato la messa on line de ilfattoquotidiano.it continuano a ripeterci che c’è troppa gente, che tutti vogliono leggerci. Che i server non reggono e, quel che è peggio, che loro non sanno cosa fare. Tra le varie spiegazioni fornite, di vera c’è probabilmente solo l’ultima. Ma noi che in quel momento di Rete siamo ancora totalmente digiuni non sappiamo cosa ribattere. Risultato: il sito non si si vede, quando si vede è lentissimo e in ogni caso non può nemmeno essere aggiornato. Qualcosa funziona a singhiozzo solo quando il traffico scende. Cioè di notte. Così la nostra mezza sporca dozzina (quattro persone a Milano e due a Roma) per due notti consecutive resta sveglia per pubblicare gli articoli. A turno andiamo a riposare sulle panchine di Parco Sempione. Sono vicinissime alla redazione: due stanze minuscole in cui fa un caldo atroce e non c’è nemmeno lo spazio per stendersi per terra.

Dopo 48 ore a occhi sempre spalancati, mi chiudo nel mio cosiddetto ufficio, due metri per due, e piango. Se ne accorge (forse) Davide Milosa che per caso il pomeriggio del 24 giugno apre la porta e subito in silenzio la richiude.

A ripensarci ora, vedendo come sono poi andate le cose, quell‘inizio in salita non poteva che portarci bene. Così come ci ha portato bene un altrettanto surreale tentativo di andare in diretta tv su un network di reti private locali, con un fischio continuo che impediva l’ascolto. Ilfattoquotiano.it viaggia oggi a più di due milioni di utenti unici al giorno di media e Loft, la nostra casa di produzione televisiva, ideata e voluta da Cinzia Monteverdi, mette in onda programmi di grande successo e qualità. Ma allora tutto aveva il sapore della sconfitta.

Non che non fosse valida l’idea iniziale. Quando L’Epresso, il settimanale dove lavoravo, aveva deciso di non pubblicare un pezzo, mio e di Marco Lillo, che raccontava come l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, fosse sotto inchiesta, avevo iniziato a pensare che in Italia ci fosse davvero bisogno di un gruppo editoriale multimediale indipendente. Credevo, e credo, che internet potesse darci una libertà immensa. Pensavo che anche in tv si potessero trovare spazi per trasmettere sui concorrenti di Rai e Mediaset.

I libri che avevo pubblicato con Marco Travaglio avevano poi fatto il resto. Mi avevano fatto mettere un po’ di fieno in cascina: se proprio fosse andata male con Il Fatto Quotidiano, per un anno e mezzo avrei avuto di che vivere.

Così me ne andai, al seguito di Antonio Padellaro, come me ne ero andato, sempre con Travaglio, da il Giornale nel 1994, quando Silvio Berlusconi era sceso in campo e Indro Montanelli aveva fondato La Voce.

Dicono che si impari dagli errori. A volte non è vero. E in quel caso fu proprio così. Di La Voce mi era rimasta in mente la follia economica di un giornale libero dove tutti avevano dei superstipendi, dove la sede era in un lussuoso e costosissimo palazzo del centro di Milano e dove c’erano corrispondenti dalle maggiori città d’Italia e del mondo. Allora per farci chiudere era bastata una prima pagina in cui Enrico Cuccia, il potentissimo banchiere del mistero, veniva raffigurato grazie a photoshop come una sorta di Nosferatu sopra un titolo urlato: “Cuccia, l’orgia del potere”. Visti i costi, eravamo quasi subito stati costretti a rivolgerci alle banche per ottenere credito. Sarà stata una coincidenza, ma dopo quel titolo sul gran capo di Mediobanca, uno dopo l’altro tutti gli istituti ci chiusero i fidi. A Il Fatto Quotidiano non doveva andare allo stesso modo. E infatti grazie a Giorgio Poidomani prima e a Monteverdi dopo, i nostri amministratori delegati, la storia è stata diversa.

Uguale a La Voce è invece stato l’entusiasmo. Anche perché le nostre redazioni, carta e online, erano e sono piene di giovani. L’idea, unica in Italia, di mantenere le redazioni separate ci ha permesso di pubblicare due giornali complementari. Come complementari penso che siano i nostri caratteri. Il quotidiano, prima di Padellaro e poi di Travaglio, è un giornale da battaglia che costruisce intorno a sé una comunità di persone orgogliose di averlo sotto braccio. Ilfattoquotidiano.it, pur avendo gli stessi valori, si ispira invece al giornalismo anglosassone, con le notizie rigorosamente separate dalle opinioni (pubblicate solo nella colonna blog), in modo da riuscire a parlare facilmente a tutto il mondo della Rete, ormai molto più grande di quello che va in edicola.

Non è però solo una questione di caratteri e stili diversi. C’è anche una necessità pratica. Perché tra i doveri del giornalista ce n’è uno che spesso in molti dimenticano. Noi non dobbiamo solo dire la verità, riportare tutte le notizie che siamo in grado di trovare, applicare con chiunque lo stesso metro di giudizio. Abbiamo pure il dovere di farci leggere. Anche per questo il nostro modo di fare giornalismo può e deve cambiare a seconda del mezzo con cui comunichiamo. Per capirlo ci ho messo del tempo. Non esiste un giornalismo di serie A e di serie B. I giornalisti sono di serie A o di serie B non a seconda del medium dove lavorano o degli argomenti di cui si occupano. A stabilire la differenza è solo la maniera in cui lo fanno.

Abbiamo sempre lavorato bene noi a ilfattoquotidiano.it? No, di errori ne abbiamo fatti. Io per primo. Tra le mie epic fail vanno annoverati il blog concesso a Massimo Ciancimino quando la magistratura lo considerava ancora credibile (Padellaro, devo ammettere, mi aveva telefonato per dirmi: ne sei proprio sicuro?), ma in ogni caso chiuso non appena si comprese come qualcosa nel suo racconto non tornasse, e la decisione di accodarci a tutti gli altri giornali affrontando il caso del video porno di Tiziana Cantone, la ragazza poi morta suicida, come un fenomeno di costume e non come un caso di cronaca.

Ma l’elenco è più lungo. Perché solo chi lavora purtroppo può sbagliare. E noi qui tra sito, FqMillennium, tv e giornale, lavoriamo tanto. Solo che io questo mestiere, soprattutto per un editore come Il Fatto Quotidiano, lo farei pure gratis. Ma questa è un’altra storia. Da non raccontare, per favore, al nostro consiglio di amministrazione.

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