Società

Omofobia, io sono stato forte ma molti non ce l’hanno fatta. Ecco perché serve una legge

Nelle settimane a venire si discuterà della legge contro l’omotransfobia in Parlamento. Si sono già levate voci contrarie, in merito: se passasse, si teme, non si potrebbe più manifestare liberamente il proprio pensiero. Non entro nel merito giuridico della questione. Penso sia più corretto vedere come certi sentimenti d’odio agiscono sulla vita delle persone colpite. Per questo motivo, da qui alle prossime settimane racconterò diverse storie. Cominciando da me, quando ero ragazzo.

Non era facile avere 17 anni, 29 anni fa in Sicilia. Le risate per i corridoi, a scuola. Le spinte improvvise, quando incrociavi un compagno mentre andavi al bar. Calcolare il momento in cui andare in bagno. Possibilmente quando non c’era nessuno. Mai durante la ricreazione. Evitare di passare per quella strada. Essere al centro del disprezzo del mondo, in altre parole.

E poi, le voci. Quelle parole, lanciate come sassi addosso. All’improvviso. Senza preavviso. Senza un perché, soprattutto. La mia vita, per molto tempo, è stata questa. Anzi, fino a 17 anni, questa era tutta la mia vita. Un perimetro di parole ostili, dentro il quale volevano rinchiudermi. E dal quale provavo a fuggire, ogni giorno.

Quel giorno ero nella mia stanza, al computer. Cominciava a far caldo. La finestra aperta. Un accenno di rondini, oltre il balcone. Poi le voci. Tutte quelle voci. C’era un ponticello, sotto. Cinque piani più sotto. Lì, le sere d’estate, i miei coetanei si riunivano per parlare e fumare, lontano dagli sguardi dei grandi. Potevo osservarli, sempre a distanza. La mia presenza non era prevista. Di certo, non gradita. E quindi, quelle voci.

Da-rio-è-froo-cio.
Da-rio-è-froo-cio.

Scandite, così. Una cantilena malvagia. A un certo punto somigliante a quelle di bambini di un film dell’orrore. L’orrore, intanto, si impadronì di me.

Cosa fare? Continuare come se nulla fosse? Prima o poi se ne sarebbero andati. Però, di là, c’erano i miei genitori. Se avessero sentito? Cosa sarebbe successo, se fossi stato costretto a dare una spiegazione? Una spiegazione che, io per primo, non ero ancora capace di darmi? Perché poi arriva il momento in cui dici: “Ok, è così. Alla fine che male c’è? Ti piacciono i ragazzi e amen”. Ma quel momento ha sempre bisogno di tempo e riflessione. Di silenzio, soprattutto. Invece c’erano le voci. Da-rio-è-froo-cio. Con tutte quelle o di troppo.

Alla fine non è stato difficile scegliere. Meglio affrontare il “nemico” che lo sguardo di mamma e papà. Sempre per quella cosa del silenzio, del tempo e della riflessione. E allora mi sono affacciato, con un vaffanculo in gola. Vicino al cuore, in gola pure lui. Li avrei cacciati via. Eppure non dissi nulla. Mentre mi affacciavo dal parapetto e guadagnavo con lo sguardo il ponticello, quelle voci si dissolvevano. Le rondini, intanto, coprirono il resto.

Allucinazioni. La violenza non è solo un pugno in faccia, senza motivo. La violenza è anche sentir ripetere sempre quelle parole che poi fanno talmente parte di te che le senti anche quando non c’è nessuno. E così ti vengono le allucinazioni. E senti le voci, anche quando non ci sono. Perché ti sono dentro. Ti perseguitano. Rimbombano. Hanno vinto loro. E allora guardai giù. Cinque piani. Morte certa. Avrebbe fatto male? Chissà. Però, ecco, sarebbe stato un attimo. Pochi secondi, per cadere giù. Pochi attimi, prima di morire. Ma almeno, così, le voci se ne sarebbero andate via per sempre.

Non so quanto durò il tempo in cui stetti lì a pensare al salto. Non so se fu un attimo o il tempo sufficiente per riconsiderare ogni cosa. So solo che la voce arrivò. Un’altra. Sempre da dentro. Era un no. Un “no, ti meriti di meglio”. Un “no, non è questo il finale previsto per te”. Un confine nettissimo tra la vita e ciò che non lo era. Un orizzonte ben più ampio del perimetro in cui volevano rinchiudermi. Un no più forte persino del garrito delle rondini in alto. Un no che mise a tacere le voci cattive, che da quell’istante non tornarono più.

Che poi alla fine, il salto, io l’ho fatto. Non fu un lancio nel vuoto, ma un balzo in avanti. Verso quella che sarebbe stata la mia vita a venire. Quella che mi avrebbe stretto tra le braccia di mamma, quando le avrei detto dopo qualche tempo: “Ok, è così. Alla fine mi piacciono i ragazzi”. Quella che un giorno mi avrebbe fatto innamorare. E marciare in mezzo alle città, con l’arcobaleno sulle guance. Quella che mi avrebbe portato, da quel momento in poi, a dire no tutte le volte che avrebbero provato a farmi sentire inadeguato, imperfetto o infelice. Quel no, su quel balcone, fu il mio abracadabra. E non so se l’ho già detto, ma le voci cattive, da quell’istante, non tornarono più.

Io sono stato forte. E fortunato. Lo stesso non si può dire di molti/e adolescenti che non ce l’hanno fatta. Se ci fosse stata allora la dovuta sensibilità, forse quelle voci non le avrei sentite.

È tardi per parlare del passato. Siamo ancora in tempo, tuttavia, per proteggere chi ora è più fragile. Per questo serve una legge. Per parlare di rispetto, a cominciare dalle scuole. Perché certe cose non accadano più. Per mettere a tacere non la libertà di opinione, ma le voci cattive dentro di noi.