Il 23 giugno 1980 magistrato Mario Amato è ucciso a Roma, alle 8 del mattino mentre sta aspettando l’autobus che lo deve portare al lavoro. Solo, per strada, senza scorta e auto blindata. Mario Amato è colpito con un colpo di rivoltella alla nuca dall’estremista nero Gilberto Cavallini, sceso da una moto guidata da Luigi Ciavardini. Cavallini appartiene ai Nuclei armati rivoluzionari (Nar) l’organizzazione di estrema destra fondata alla fine del 1977 e guidata da Valerio Fioravanti.
Tre mesi prima di morire, Amato davanti al Consiglio superiore della magistratura, ha evidenziato le carenze di sicurezza nei confronti dei giudici. Nonostante la procura di Roma lo abbia indicato fra i tre magistrati più a rischio, Amato aveva anteposto alla sua protezione quella dei colleghi impegnati contro il terrorismo rosso.
Nel 1980 il tributo di sangue pagato dalla democrazia italiana al terrorismo è elevatissimo. Nei primi sei mesi dell’anno si profila un attacco alla magistratura, fortemente esposta al tiro delle forze eversive a causa delle sue indagini. In questo tornante la magistratura è il punto di tenuta del sistema repubblicano.
Il 12 febbraio è ucciso dalle Brigate rosse la figura più eminente della categoria: Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, colpito all’uscita di un’aula della Sapienza dove si era tenuto un dibattito sul terrorismo. Dal 16 al 19 marzo cadono sotto i colpi del terrorismo rosso altri tre magistrati: Nicola Giacumbi, procuratore capo della Repubblica di Salerno, Girolomo Minervini direttore degli Istituti di prevenzione e pena e Guido Galli, assassinato all’Università Statale di Milano.
In quei giorni i Nar sono altrettanto attivi: compiono rapine, asportano armi, uccidono a Roma gli agenti di polizia Maurizio Arnesano (il 6 febbraio) e Franco Evangelista il 28 maggio. Con la morte di Mario Amato salgono a 11 i giudici uccisi dalle organizzazioni terroristiche di cui 5 a Roma. Fra i magistrati, l’impatto emotivo di questa esecuzione è elevato. Per il 24 e il 25 giugno viene proclamata la sospensione delle udienze. I magistrati chiedono al governo garanzie per la loro incolumità e accusano i vertici della magistratura di “colpevole inerzia”. Al presidente della Repubblica Sandro Pertini si chiede di ricorrere all’esercito per mantenere l’ordine nelle città. Circolano anche voci su possibili dimissioni di massa dei giudici dai loro incarichi.
La storia professionale e umana di Mario Amato è simile a quella di altri magistrati uccisi. Amato è l’unico giudice (nonostante le sue ripetute richieste di aiuto) che indaga in tutto il territorio del Lazio sulle organizzazioni terroristiche di estrema destra. A lui viene affidata anche l’inchiesta della procura della Repubblica di Rieti sul Movimento per l’Ordine nuovo legato alle attività di Paolo Signorelli. Un compito proibitivo per un uomo solo (ottiene la collaborazione di due colleghi soltanto un mese prima della sua morte) che lo lascia particolarmente esposto.
Una solitudine aggravata da speculazioni politiche (si dice che sia lui a creare il terrorismo nero), dalle calunnie provenienti dai legali collegati alla destra e cavalcate da Il Tempo. Come se non bastasse su di lui gravano le minacce dei terroristi, il peso degli altri incarichi di routine (udienze, turni, istruttorie) e la messa a sua disposizione, per le indagini, di un solo funzionario di polizia.
Amato aveva più volte avvertito sulla pericolosità del terrorismo nero, ma – ricorda Elisabetta Cesqui – diversi colleghi commentavano i suoi allarmi con aria di sufficienza. Strategicamente la morte di Amato è concepita per bloccare le indagini sui Nar, per guadagnare l’egemonia sugli altri gruppi dell’estrema destra e per emulare l’azione di Pierluigi Concutelli che il 10 luglio 1976 aveva ucciso il magistrato Vittorio Occorsio anche lui impegnato nelle indagini sugli ambienti neri. Mario Amato aveva ereditato il lavoro di Occorsio.
Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, la sera stessa dell’attentato, festeggiano a ostriche e champagne l’esecuzione “del giudice più odiato dalla destra eversiva” secondo le parole dello stesso Fioravanti, condannato poi all’ergastolo per questo omicidio assieme alla Mambro e a Cavallini. Ciavardini, Fioravanti e Mambro saranno poi gli esecutori della strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna.