Lo scorso 13 maggio il Parlamento francese aveva approvato la cosiddetta Legge Avia – dal nome della sua relatrice, Letizia Avia – per il contrasto ai contenuti violenti e, più in generale, illeciti online. Il cuore della legge erano due previsioni attraverso le quali, nella sostanza, si stabiliva che i gestori delle grandi piattaforme di aggregazione contenuti prodotti dagli utenti avrebbero dovuto rimuovere dal web, entro un’ora, i contenuti segnalati come illeciti dalle Autorità e, entro 24 ore, quelli segnalati da chiunque. Fino a 250mila euro di multa e un anno di galera per chi avesse violato tali obblighi. Una brutta legge, probabilmente la peggiore possibile, come già scritto.
Una legge che in nome di un fine condivisibile – garantire maggiore civiltà e rispetto del prossimo nel dibattito online – giustificava e, anzi, imponeva il ricorso a mezzi e strumenti democraticamente insostenibili, nominando, di fatto, i gestori delle grandi piattaforme online giudici dei contenuti.
A meno di un mese dalla sua approvazione, nei giorni scorsi, è arrivata la decisione della Corte Costituzionale francese: le disposizioni che rappresentano l’anima della legge sono incostituzionali. Le undici pagine della sentenza meritano di essere lette tutte d’un fiato. Sono una meravigliosa lezione su come neppure il perseguimento degli obiettivi più nobili può giustificare il rischio di comprimere la libertà di parola online.
Il filo rosso – neppure tanto sottile – che attraversa l’intera decisione è questo: chiedere a Facebook, Google, Twitter e agli altri giganti del web di cancellare contenuti pubblicati dagli utenti entro un’ora o – cambia poco – entro 24 ore significa accettare il rischio che questi ultimi, a scopo cautelativo, per sottrarsi al rischio di una sanzione, rimuovano anche contenuti che meriterebbero di restare online perché semplice e legittimo interesse della libertà di parola.
E si tratta, naturalmente, di uno scenario costituzionalmente e democraticamente insostenibile. I Giudici della Corte Costituzionale non hanno dubbi che se il gestore di una piattaforma da milioni o, addirittura, miliardi di utenti deve rimuovere un contenuto in intervalli di tempo così brevi non ha reali alternative a procedere per approssimazione e nel dubbio rimuovere un contenuto in più, anziché uno in meno.
Ma questo vorrebbe dire censurare la libertà di parola di qualcuno solo per far prima. E le scorciatoie, in democrazia, sono normalmente la strada sbagliata. Fare in fretta, quando si tratta di diritti e libertà, non significa far bene e, soprattutto, la giustizia privata indotta dalla legge dei giganti del web produce più rischi che benefici. È una lezione della quale fare tesoro.
In democrazia tocca ai giudici decidere quando un contenuto meriti di restare online e di contribuire al dibattito globale e quando di essere condannato all’oblio. Non ci sono scorciatoie percorribili, non se si vuole camminare lungo la strada della democrazia. Meglio – e questo principio è ben leggibile tra le righe della sentenza della Corte Costituzionale – che un contenuto illecito resti online un po’ di più, che un contenuto lecito sia cancellato dal web.