L'azienda, che produce veicoli commerciali, dovrà risarcirlo con un indennizzo di 5mila euro e il pagamento delle spese legali: al lavoratore venne negata la possibilità di andare in bagno e di cambiarsi dopo essersi urinato addosso. Il sindacato Usb: "La sentenza gli restituisce in parte la dignità"
Non fu autorizzato ad andare in bagno e si urinò addosso, riuscendo a cambiarsi solo oltre un’ora dopo davanti a colleghe e colleghi. A 3 anni di distanza dai fatti, anche la Corte d’Appello dell’Aquila, come già il giudice del lavoro di Lanciano, Cristina Di Stefano, nel settembre 2019, dà ragione a un operaio della Sevel, joint venture tra Fca e Psa che produce veicoli commerciali leggeri. L’azienda dovrà risarcirlo con un indennizzo di 5mila euro e il pagamento delle spese legali.
Come ricostruiva la sentenza di primo grado e ha sostanzialmente confermato l’appello, il lavoratore azionò per la prima volta il dispositivo di chiamata-emergenza alle 16,45 per potersi allontanare, senza che nessun team leader andasse nella sua postazione. L’operaio “ha dunque azionato il dispositivo della postazione vicina”, sempre “con esito negativo” e alla fine ha chiesto ai team leader che si trovavano nei paraggi il permesso di recarsi alla toilette, senza però ottenere risposta positiva.
“Giunto allo stremo, e non avendo alternativa alcuna – si leggeva nella sentenza – lasciava la postazione e correva verso i servizi igienici, non riuscendo ad evitare di minzionarsi nei pantaloni”. “Nonostante ciò – scriveva il giudice del lavoro di Lanciano – riprendeva immediatamente il suo lavoro; chiedeva di potersi cambiare in infermeria, ma tale permesso gli veniva negato”, tanto da riuscire a cambiarsi solo “durante la pausa, alle 18, presso il cosiddetto ‘Box Ute’, al cospetto di tutti i lavoratori vicini, donne comprese”.
A rendere nota la nuova condanna è stato il sindacato Usb ribadendo che il datore di lavoro ha arrecato “concreto e grave pregiudizio alla dignità personale del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, indubbiamente derivante dall’imbarazzo di essere osservato dai colleghi di lavoro con i pantaloni bagnati per essersela fatta addosso”.
La sentenza, dice l’Usb, “ha reso giustizia al lavoratore e gli restituisce in parte la dignità che rimane irrimediabilmente lesa per le conseguenze che la vicenda ha inevitabilmente generato in lui a livello morale e psicologico”. La partita, ad avviso del sindacato, non sia comunque finita: “A suo tempo la Sevel ha presentato querela per diffamazione aggravata per mezzo stampa nei confronti del lavoratore e del coordinatore provinciale dell’Usb, Fabio Cocco, sostenendo che avessero trasmesso ai media di informazioni non vere”.
“All’esito delle indagini la Procura di Lanciano – dice ancora il sindacato – ha depositato richiesta di archiviazione non ritenendo fondata la querela di Sevel. Sull’archiviazione della querela restiamo in fiduciosa attesa per mettere la parola fine a questa triste vicenda”.