Giustizia & Impunità

Caporalato, la ribellione dei 2 braccianti che hanno fatto arrestare 7 persone: “Trattati come animali, 26 ore di fila al lavoro per 30 euro”

Due ragazzi bengalesi, stremati da violenze e minaccce, hanno denunciato titolari di un'azienda agricola di Amantea, in provincia di Cosenza, e caporali alla polizia: "Ci trattavano al limite del rispetto umano". Ed erano costretti a lasciare parte del guadagno per un letto in una casa fatiscente, piena di muffa, in un cui vivevano in sette, con bagni malfunzionanti e senza riscaldamento. Costretti a mangiare per terra, perché non era loro consentito prenzare seduti ad un tavolo come gli italiani

“Sono stato sempre trattato come un animale, con insulti e cattive parole dirette contro la mia persona”. “Una volta dopo avermi sgridato per una stupidaggine mi ha pure lanciato addosso una cassetta facendomi male”. “Due mesi prima mi aveva schiaffeggiato sul luogo di lavoro perché avevo sbagliato a prendere della merce dalla cella frigorifera”. E via con le offese gratuite, solo per essere caduto rovesciando una cassetta di pomodori: “Figlio di puttana e ignorante di merda”. A volte erano costretti a mangiare per terra o su delle cassette della frutta perché non era loro consentito pranzare seduti ad un tavolo come gli italiani.

Angherie su angherie che due ragazzi del Bangladesh a un certo punto non hanno più sopportato denunciando tutto al commissariato di Paola. Agli agenti guidati dal vicequestore Giuseppe Zanfini, i due braccianti agricoli hanno raccontato le condizioni di lavoro nell’azienda “La Carota Srl” di Amantea, dove la manodopera, stando all’inchiesta, era impiegata con violenze e minacce. Imprenditori che approfittavano dello stato di bisogno degli operai extracomunitari che venivano costretti a lavorare anche 26 ore di fila per poi lasciare parte del guadagno – 30 euro in totale – ai caporali per un letto in un appartamento fatiscente. Una casa piena di muffa dove erano ammassati anche in sette, con bagni malfunzionanti e senza riscaldamento.

L’abitazione era di proprietà della suocera del datore di lavoro, Gennaro Suriano, una delle sette persone finite agli arresti domiciliari stamattina su ordine del gip di Paola. La stessa misura cautelare è stata disposta, su richiesta della procura, anche per alcuni familiari dell’imprenditore agricolo: Francesco Suriano, Rocco Suriano, Saverio Suriano, Roberto Suriano che si sono visti sequestrare pure le loro quote (circa il 20%) dell’azienda. Sono finiti agli arresti domiciliari pure due cittadini del Bangladesh: Anouar Hossain Mizan e Das Kakon.

Secondo il procuratore Pierpaolo Bruni e il pm Antonio Lepre erano loro i caporali, i “fiduciari dei datori di lavoro”, i soggetti che avevano il compito di reclutare “la manodopera, concordando giorni e orari” e pretendendo dalla stessa anche 5 euro al giorno “oltre ad un fisso mensile (di 200 euro, ndr) per il vitto”. Nelle carte dell’inchiesta, i pm hanno inserito i verbali dei due bengalesi che si sono ribellati. “Ho visto Roberto Suriano – racconta uno dei lavoratori – dire ad Abdula di andare al mercato all’ingresso di Cosenza per scaricare della merce. Si precisa che in quei giorni stavamo tutti onorando i dettami del Ramadan che ci vieta per quasi tutto il mese di maggio fino ai primi di giugno di mangiare dall’alba al tramonto, per cui il mio connazionale era fisicamente molto debole e non si sentiva”. Malgrado ciò, dice il bracciante agli inquirenti, Suriano “non solo non gli ha permesso di mangiare qualcosa ma gli ha pure detto che se non andava a Cosenza l’avrebbe licenziato”.

“La stessa domanda – aggiunge – è stata fatta a me e alla mia risposta negativa sono stato trattato in malo modo. Un paio di giorni dopo mi hanno chiamato in ufficio e ingannandoci con il fatto che dovevamo firmare la busta paga ci hanno fatto firmare le dimissioni volontarie”. I rimproveri e le grida erano all’ordine del giorno per gli operai agricoli: “Ho visto i miei connazionali e io stesso – fa mettere a verbale uno dei due bengalesi – trattati in modo vergognoso ai limiti del rispetto umano. A volte siamo stati offesi in dialetto calabrese ma non abbiamo capito cosa volessero dirci”.

Se un operaio non era in regola con il permesso di soggiorno, per gli imprenditori arrestati non era un problema. Anzi era l’opportunità per sfruttarlo ancora di più. Lo racconta Abdula ai poliziotti: “Inizialmente ho avuto un permesso provvisorio di soggiorno per asilo politico. Mediante tale permesso sono rientrato nelle condizioni per essere assunto con un regolare contratto presso La Carota. Successivamente il permesso mi è stato rigettato per cui mi sono trovato in una posizione di irregolarità. Rocco Suriano mi ha riferito che non c’erano problemi e potevo lo stesso continuare a lavorare. Senza quei soldi non avrei mai avuto alcuna forma di sostentamento e per cui per me era molto importante mantenere quel lavoro”.

Ma le cose sono presto cambiate per Abdula: “Da quel momento la mia condizione si è molto modificata e sono iniziati i maltrattamenti e lo sfruttamento da parte di tutti i Suriano che profittando del fatto che potevo lavorare per nessun’altra azienda hanno iniziato ad incalzarmi facendomi lavorare con orari e turni massacranti. Sono pertanto iniziati i miei viaggi notturni verso il mercato ortofrutticolo di Cosenza, viaggi che diversamente non effettuavo quando la mia posizione di straniero era regolare”.

Lo sfruttamento dei migranti all’interno dell’azienda agricola di Amantea è continuato anche durante il periodo di emergenza per il coronavirus. Il 20 aprile, infatti, la polizia ha effettuato un servizio di osservazione e, nonostante le restrizioni previste dai vari Dpcm, ha notato “tre cittadini di colore, quasi certamente extracomunitari – scrivono i pm – lavorare senza indossare la prevista mascherina di protezione”.