Il crollo dell’economia americana, con un Pil in calo del 5% solo nel primo trimestre, va imputato ai più ricchi. Che hanno tagliato drasticamente le spese per servizi che richiedono un contatto interpersonale. A tenere a galla i consumi, ma non abbastanza, sono state le fasce meno abbienti della popolazione. Chi ne ha beneficiato? I bilanci di coloro che ne avevano meno bisogno, ovvero i giganti dell’e-commerce. Settimana dopo settimana diventano sempre più chiari gli effetti sul tessuto economico americano dell’imponente pacchetto di aiuti alle famiglie, predisposto due mesi fa dal governo di Donald Trump. Effetti in qualche modo paradossali, ma conseguenza di un insufficiente intervento sul fronte del contenimento dell’epidemia.

I fondi del Cares Act hanno avuto un ruolo decisivo nel supportare il sostentamento immediato delle fasce più bisognose della popolazione, ma allo stesso tempo non hanno raggiunto l’obiettivo sperato di dare ossigeno alle piccole attività e alle economie di quartiere, che hanno sofferto il calo dei consumi soprattutto nelle zone affluenti dei grandi centri, generando una diffusa disoccupazione.

Dopo la crisi del 2008 gli aiuti furono usati per comprare auto – Durante la crisi del 2008 il governo concesse tra i 300 e i 600 dollari a persona, cui si aggiunsero 300 dollari per ogni figlio. Questi aiuti, secondo una ricerca condotta nel periodo interessato dalla American Economic Association, si diressero soprattutto verso il settore automobilistico, che raccolse fino al 90% dei sussidi governativi. Undici anni dopo, a fronte di un nuovo choc e di nuovi sussidi, la risposta del Paese a stelle a strisce è stata molto diversa.

Il piano anti Covid: 1.200 dollari a testa spesi in bollette, cibo e acquisti online – Con l’imponente Cares Act da 2.200 miliardi di dollari, di cui 290 miliardi in liquidità diretta, i cittadini americani con un reddito annuale fino a 75.000 dollari hanno ricevuto 1.200 dollari a testa, a cui si sono aggiunti 500 dollari per ogni figlio. Una famiglia di quattro persone rientrante nei parametri di reddito ha dunque beneficiato di 3.400 dollari, versati dal 15 aprile in avanti. Fondi che nella primissima fase si sono trasformati in spese per coprire affitti e bollette e per acquistare beni non durevoli come alimenti e prodotti per la cura personale per chi versava nelle condizioni più difficili. E successivamente in beni durevoli, ma a beneficio dei grandi retailer online e a scapito degli esercizi di prossimità. Con un impatto devastante per il settore dei servizi alla persona.

Secondo un’indagine che ha riguardato soprattutto la fascia a basso reddito, condotta congiuntamente da Scott Baker (Kellogg School of Management), R.A. Farrokhnia e Michaela Pagel (Columbia Business School), Constantine Yannelis (Chicago Booth), e Steffen Meyer (University of Southern Denmark), un terzo degli aiuti concessi dal governo è stato utilizzato nel giro dei primi dieci giorni. L’indagine si è avvalsa di un panel di 5.746 persone registrate a SaverLife, una non profit che attraverso la tecnologia favorisce la gestione finanziaria personale, la cui community dispone di un reddito medio di circa 30.000 dollari, inferiore alla media per la popolazione americana che si aggira attorno a 63.000 dollari. Analizzando i comportamenti in tempo reale di 1.600 beneficiari degli aiuti, i ricercatori hanno scoperto che le persone situate nella fascia di reddito più bassa – meno di 1.000 dollari al mese – avevano speso il 40% degli aiuti nei primi dieci giorni, una percentuale doppia rispetto alle persone situate nella fascia di reddito più alta, con un guadagno mensile superiore a 5.000 dollari.

Una correlazione più debole è stata invece rilevata con la perdita di reddito nel mese di marzo rispetto ai mesi precedenti, confermando l’ipotesi che il rapido utilizzo del benefit governativo fosse collegato alla liquidità presente sul proprio conto. Le persone con un deposito maggiore di 3.000 dollari non hanno mostrato reazioni alla ricezione degli aiuti, mentre coloro con un deposito di 500 dollari o meno hanno speso il 44,5% del benefit governativo entro i primi dieci giorni.

I più ricchi hanno tagliato drasticamente le spese per paura del contagio – Una diversa indagine, condotta dal gruppo Opportunity Insight dell’Università di Harvard, ha confermato queste evidenze per la fascia a basso reddito e ha offerto ulteriori spunti di riflessione sulla popolazione con un reddito più alto, aiutando a comprendere l’impatto di queste dinamiche sull’economia americana. Raj Chetty, Nathaniel Hendren, John N. Friedman e Michael Stepner hanno sottolineato che il calo dei consumi ha interessato soprattutto i cittadini americani con capacità di spesa maggiore, e soprattutto nei servizi che richiedono interazione personale. Al 31 maggio, due terzi della riduzione della spesa tramite carte di credito era riconducibile al 25% delle famiglie con il reddito più alto, mentre le famiglie con il 25% del reddito più basso hanno continuato a spendere come prima, grazie anche agli aiuti statali che hanno contribuito a sostenere le necessità quotidiane. Le famiglie più ricche non hanno tagliato i consumi per mancanza di liquidità o di potere di spesa, ma per le preoccupazioni collegate all’emergenza sanitaria. In particolare, nei servizi – come trasporto e industria del cibo – che richiedono contatto personale e che dunque potevano configurarsi come potenziali veicoli di contagio.

Di conseguenza a subire l’impatto del lockdown sono state maggiormente le piccole attività nelle aree cittadine più ricche. L’indagine mette a confronto i ricavi delle attività economiche di gennaio e aprile secondo i codici postali, evidenziando un crollo dei fatturati nelle zone più ricche, con una clientela dunque più ricca, del 70%, rispetto alle aree meno ricche, che hanno invece registrato una contrazione dei ricavi del 30 per cento. Nell’area di New York, ad esempio, le attività dell’Upper East Side di Manhattan sono state di gran lunga più colpite rispetto alle attività di Harlem o del Bronx. Ugualmente a soffrire di più sono stati i lavoratori delle aree più ricche. Più del 70% dei lavoratori a basso reddito delle piccole attività nelle aree più ricche hanno perso il proprio impiego nelle prime due settimane dell’emergenza sanitaria, contro il 30% dei colleghi attivi nelle zone meno ricche. Nelle aree più colpite non solo ci sono stati più licenziamenti, ma nelle settimane successive sono si sono aperte meno opportunità di lavoro, suggerendo che in queste aree il ritorno al passato sarà molto più difficile.

I servizi alla persona non riprendono quota – Nemmeno la riapertura delle attività non essenziali, dopo il lockdown, ha provocato un’inversione di tendenza, come evidenziato dal confronto tra gli Stati che hanno adottato provvedimenti differenti. La traiettoria dei consumi tra febbraio e maggio è risultata praticamente identica per il Minnesota e il Wisconsin, sebbene il primo abbia alzato nuovamente le serrande il 27 aprile e il secondo due settimane dopo, il 13 maggio. Lo stesso è accaduto per quanto riguarda l’occupazione. Mostrando che il crollo di consumi e occupazione è collegato ai timori del contagio e non direttamente agli ordini di restrizione delle attività. Infatti, dopo il superamento della fase più critica, anche la spesa per i beni durevoli ha ripreso quota, finendo per rappresentare il 44% della spesa complessiva dei consumatori americani, oltre la quota pre-crisi che si attestava al 23 per cento. I servizi alla persona, invece, hanno rappresentato solo il 18% della spesa, ben al di sotto del livello pre-crisi del 32 per cento.

Festeggiano Amazon e Walmart. Mentre i piccoli chiudono – Questa doppia dinamica spiega il boom che hanno registrato i servizi di e-commerce come Amazon e i grandi retailer come Walmart, a tutto danno delle piccole attività, che costituiscono il tessuto socio-economico del Paese. Per le quali nemmeno gli oltre 500 miliardi di dollari del Paycheck Protection Program, che ha concesso prestiti alle imprese con meno di 500 dipendenti, sono stati risolutivi. “Il leggero incremento dell’occupazione delle ultime settimane è da attribuire alla ripresa dei consumi, parzialmente dovuta allo stimulus e forse più largamente all’affievolimento delle preoccupazioni sanitarie”, scrive il gruppo di Harvard. Di conseguenza, sostengono i ricercatori, nessun pieno recupero potrà essere possibile senza un adeguato intervento di normalizzazione dell’emergenza sanitaria.

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