La pandemia ha fatto emergere un sacco di realtà in giro per il mondo legate al rapporto uomo-animale. Della quasi certezza che il virus abbia fatto il salto di specie e dell’accusa agli allevamenti di animali selvatici si è già detto. Si è parlato meno invece del fatto che uno dei più grandi impianti di lavorazione della carne di maiale, a Sioux Falls in South Dakota, sia stato chiuso a causa del rapido diffondersi al suo interno del virus. Su 3700 lavoratori ben 240 sono risultati positivi. Non certo perché la carne diffondesse il virus, quanto perché le condizioni di lavoro degli addetti non erano sufficientemente sicure.

La morte per Covid di Elose Willis in un allevamento di pollame di proprietà della Tyson Foods di Camilla in Georgia (colosso della carne con 100.000 dipendenti), ci dice invece delle condizioni di vita (“vita?”) degli animali e degli uomini. La signora Willis faceva turni di dieci ore per cinque giorni alla settimana e durante ogni turno macellava 100.000 (centomila) polli. La signora è morta a causa del Covid. Il suo stabilimento è infatti rimasto aperto durante la pandemia perché Trump aveva emanato un Defense Production Act cioè un provvedimento che consente alle aziende di interesse nazionale di rimanere aperte in situazioni eccezionali: perché negli Usa mangiare carne è ritenuto vitale per la sopravvivenza.

Paese che vai, allevamenti che trovi. Trasferiamoci in Italia, nella regione più colpita dal virus, la Lombardia, dove una approfondita inchiesta di Greenpeace ha fatto emergere una situazione abbastanza singolare. Innanzitutto che nella regione sono ben 168 i Comuni a rischio ambientale per gli eccessivi carichi di azoto, azoto che deriva dalle deiezioni animali negli allevamenti intensivi. La Lombardia alleva la metà dei maiali e un quarto delle mucche allevate in Italia. Ma se il fatto di avere una altissima quantità di inquinanti in queste condizioni non deve stupire, stupisce invece che circa la metà dei fondi di supporto alla zootecnia destinati alla regione Lombardia che derivano dall’Unione Europea grazie alla PAC (Politica Agricola Comune) vada negli allevamenti presenti in quei Comuni che non rispettano i limiti di legge previsti proprio dall’Ue.

A tacere del fatto che il carico di azoto nei terreni può avere pesanti ripercussioni sulla salute umana e sulle acque di falda, a tacere inoltre del fatto che non si comprende come l’Ue possa combattere il global warming finanziando gli allevamenti intensivi di animali, a tacere infine del fatto che non si comprende perché debbano essere foraggiati gli allevamenti di animali, vi è poi l’aspetto non secondario che le aziende che superano i limiti di legge godono di una sorta di “impunità”, in quanto i controlli e le relative sanzioni sono davvero molto sporadici ed in alcuni casi effettuati dalle guardie ecologiche volontarie.

Non basta, la regione Lombardia ha addirittura chiesto all’Ue la possibilità di derogare ai limiti di legge. Attualmente sono fissati in 170 chili/ettaro di azoto per le zone vulnerabili ai nitrati (ZVN), con la possibilità di sforare fino a 250. Ma 250 per la regione sarebbe ancora troppo poco giacché non diminuisce il numero di capi allevati. È la solita logica della politica: non bisogna fare nulla per modificare lo status quo, anzi occorre agevolarlo. Si produce cemento, si producono armi, si producono salsicce? Bisogna continuare così, difendere lo status quo e così difendere i propri voti. La politica statica, non dinamica. Qualcuno mi spieghi come il mondo potrebbe migliorare con questa gente al potere.

Per concludere: Greenpeace ha lanciato una petizione perché vengano tagliati i sussidi pubblici agli allevamenti intensivi. Firmate!

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