Difficile da immaginare ora, ma c’è stato un tempo in cui i Red Hot Chili Peppers erano una band pressoché sconosciuta: ben prima che il nome di John Frusciante diventasse sinonimo di instabilità, la grande costante di un gruppo tra i più venduti degli ultimi 40 anni era data, neanche a dirlo, dalla droga.
Ed è così, per overdose, che il 25 giugno 1988 moriva Hillel Slovak: chitarrista, che nonostante non compaia nel primo omonimo “Red Hot Chili Peppers” (nel quale comunque è accreditato) degli stessi fu fondatore: contribuendo in maniera decisiva ai successivi “Freaky Styley” e “The Uplift Mofo Party Plan”. Per intenderci, fu Slovak – allora membro di quegli stessi Chain Reaction (poi divenuti Anthym e nei quali figurava, alla batteria, Jack Irons), a dire a Flea con invidiabile lungimiranza: “Forse dovresti imparare a suonare il basso”.
Seppure afflitti, ormai storicamente, da un evidente calo di ispirazione ai Red Hot Chili Peppers non si può non riconoscere di avere mescolato, fin da subito e per primi, ingredienti musicali fino ad allora ritenuti inconciliabili: rap, metal, soul, funk, hard rock ma anche punk e reggae.
Slovak, che iniziò a suonare emulando Jimi Hendrix, i Kiss e i Led Zeppelin, fu quello che più di altri (già solo per questo) ebbe maggiore incisività nella forgiatura del sound del gruppo. Come in un flash forward che avrebbe riguardato, più tardi, il suo primo fan dichiarato, ebbe tempo di uscire e rientrare – pure lui – solo per dichiarare chiusa l’esperienza con i What Is This?: che aveva tirato su (assieme al già citato Irons) convinto sarebbe stata questa la sua occupazione principale.
Tra Detroit e Los Angeles, sognando un ingresso nella musica che conta cercando di sfuggire alla dipendenza, Slovak perde la vita – ironia della sorte – poco dopo che il tour del terzo “The Uplift Mofo Party Plan” aveva celebrato l’ingresso del gruppo nelle classifiche americane, e il raggiungimento del primo disco d’oro in carriera. La sua salute mostrava d’altronde segni di cedimento già da tempo: anche l’abitudine, divenuta ormai un rituale, di lottare (in senso sportivo) con i compagni di gruppo prima dell’inizio degli show era per lui ormai insostenibile.
Così come l’inizio e lo svolgimento di una carriera breve quanto importante, anche la sua fine sembra in qualche maniera equiparabile alla grandezza delle gesta musicali da lui compiute: ricordando, tremendamente, le morti – più note – di Kurt Cobain, sì, ma anche Layne Stayley. Come loro, anche Slovak scelse di isolarsi, limitando il contatto con l’esterno all’utilizzo, sporadico, di un telefono fisso lasciando poi agli altri l’amara quanto prevedibile scoperta.
Per i tributi, tanti, che i Red Hot Chili Peppers riserveranno lui nelle canzoni quanto nei ricordi, a raccoglierne il testimone fu proprio quel John Frusciante che, più volte, rischiò di ripercorrerne le orme per intero: lo stesso che contribuì al successo mondiale del gruppo, e che – è storia – accettò di entrare in formazione con la promessa che questo non implicasse, mai, suonare negli stadi. Lui che si era innamorato di Slovak nei club, e non chiedeva niente di meglio che quello.