Secondo gli ultimi dati dell'Unhcr, negli ultimi 4 mesi le partenze dal Paese del Nord Africa sono quadruplicate rispetto all'anno precedente. Da un anno il giovane vive nei pressi di Medenine, città alle porte del Sahara. "I miei amici mi hanno chiesto com'è la vita qui. Ho detto loro di non venire, non c'è niente per noi"
“Cercavo un posto sicuro, ma qui non posso restare. Mi sento in trappola, non abbiamo nessuna prospettiva”. Akram (il nome è di fantasia) si racconta con calma a Ilfattoquotidiano.it, sulla terrazza del caffè dove si ritrova ogni giorno con gli amici ad aspettare che passi il tempo, guardando lontano. Da un anno vive nei pressi di Medenine, città alle porte del Sahara nel sud della Tunisia. Quando è arrivato nella città di confine, Akram cercava protezione. Aveva già provato ad imbarcarsi. Ma dopo esser stato respinto dalla guardia costiera libica, ha capito che l’Europa era più lontana di quanto credesse. “Ci hanno riportati indietro”, ricorda. “Ci hanno riportati indietro e tutto è ricominciato da capo”. Rimanere in Libia? “Avrei potuto, ma a che prezzo? C’è la guerra, e siamo trattati peggio degli animali”, racconta il giovane sudanese. Per lui i centri di detenzione di Kufra, Beni Walid, Zwara non sono luoghi lontani, ma ricordi di violenza e soprusi che preferisce non tradurre in parole. Nel racconto del suo viaggio, la Libia è una tappa buia, confusa, sofferta. Ma anche in Tunisia dice di non poter rimanere: “Qui siamo abbandonati a noi stessi, per questo in molti partono verso l’Italia”.
Così, accodandosi ad un gruppo di quattro ragazzi, Akram ha cercato rifugio in Tunisia. “Ci siamo spinti più ad ovest possibile, poi siamo venuti a piedi. Abbiamo camminato tutta la notte fino a quando non siamo arrivati al confine”. Una frontiera sempre più militarizzata dal lato tunisino, specialmente con una guerra alle porte. Un confine che però non fa paura a chi arriva dalla Libia: “Sono riuscito a varcarlo e mi sono sentito più libero. Non sapevo nulla della Tunisia né di come si vive qui. Ho solo pensato che nessun posto può essere peggio della Libia”. Come Akram, 2.099 persone nel corso del 2019 sono entrate nel Paese. La maggior parte dalla Libia, conferma l’Unhcr, secondo cui negli ultimi quattro mesi le partenze dalle coste tunisine sarebbero quadruplicate rispetto all’anno precedente.
Al di là del confine, la Tunisia. Paese di transito ma anche di partenze, dove parlare di migrazioni significa sovrapporre un fenomeno locale, quello degli “harraga” che abbandonano la propria casa, alle storie di chi lo considera semplicemente una tappa del viaggio. Secondo Akram, però, in tanti sarebbero disposti a rimanere in Tunisia se ci fossero le condizioni per farlo: “Io sarei addirittura pronto a tornare indietro, ma solo in un Paese sicuro. Chiedo il ricollocamento da mesi, ma non ottengo risposta. Ho perso sei anni cercando un futuro migliore, ed ora mi ritrovo qui bloccato, senza scuola, senza lavoro, senza una prospettiva. Dividiamo i buoni dell’Unhcr per fare la spesa perché a malapena riusciamo a mantenerci”. A Medenine, verso le sei del mattino, i migranti che cercano lavoro si ritrovano nelle strade del centro storico, dove chi ha bisogno di manodopera seleziona una o due persone pagate alla giornata. La maggior parte, però, torna al centro di accoglienza. “Non c’è lavoro per tutti”, conferma Akram senza puntare il dito contro gli abitanti della zona, perché “anche loro sono in difficoltà”.
Da anni la Tunisia adotta un approccio securitario nei confronti di chi fugge dalla Libia. Chi viene registrato da Oim e Unhcr nei centri di Medenine, Zarzis, Tataouine, rimane confinato nel sud del Paese perché dipendente dagli aiuti delle organizzazioni internazionali. Dalla capitale, i comunicati del ministero dell’Interno non esitano a parlare di “clandestini africani” riprendendo il linguaggio delle destre europee. Chi oltrepassa la frontiera, quando viene fermato dalle autorità, è automaticamente condotto in prigione con l’accusa di immigrazione illegale secondo una legge risalente al 2004. Vi resterà per un periodo di quindici giorni: soltanto dopo una serie di controlli ai migranti è permesso uscire con l’autorizzazione della Croce Rossa.
Raggiungeranno allora il centro dell’Unhcr in attesa di ottenere lo status di rifugiato, o quello dell’Oim se accettano il ritorno volontario verso il proprio Paese d’origine. Mentre la Tunisia attende ancora una legge sull’asilo, il Forum tunisino per i diritti economici e sociali ha ripetutamente criticato i “trattamenti degradanti” subiti dai migranti subsahariani nel Paese. Nel suo ultimo rapporto, l’associazione non esita a parlare di “politiche di non-accoglienza” che spingerebbero i migranti ad imbarcarsi nuovamente. E punta il dito contro l’Ue: “Questa situazione dipende dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Europa”, scrive il Ftdes.
“Alcuni amici dalla Libia mi hanno chiesto come si vive in Tunisia. Non venite, ho risposto. Non mi hanno creduto. Ma è la verità, qui non cambia niente. Non subiamo violenze fisiche ma passiamo il nostro tempo ad aspettare. Non c’è nulla per noi, non c’è futuro. È un’altra forma di tortura”, conclude Akram. Il giovane ha perfino ottenuto la protezione internazionale, lo status di rifugiato politico, ma questo non ha cambiato la realtà dei fatti: in un Paese segnato da profonde diseguaglianze economiche tra nord e sud, tra città sulla costa ed entroterra, per un rifugiato sub-sahariano confinato nelle regioni più marginalizzate è ancora più complicato trovare un’occupazione che gli garantisca un certo livello di integrazione sociale. “Per questo in tanti non hanno altra scelta che ripartire, a costo di rischiare la vita”. Dalla Tunisia verso l’Europa.