La Roma è storicamente una squadra che vive di alti e bassi emotivi, una sorta di laboratorio umanistico permanente in cui vanno in scena supplizi di Sisifo e poesia neoterica, senza soluzione di discontinuità. Non a caso è una squadra che è riuscita a far parlare di sé anche durante la pandemia, da una parte rendendosi protagonista di lodevoli iniziative a sostegno di ospedali, case famiglia e singoli tifosi anziani (ricevendo il plauso del capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli), dall’altra interrompendo il rapporto con il proprio direttore sportivo alla vigilia della ripresa del campionato, con un’intera finestra di mercato davanti, nell’ambito dell’ennesimo episodio del game of thrones societario interno.
Dal punto di vista sportivo, il sogno proibito del romanista è annoiarsi, o quantomeno concentrare la propria attenzione sportiva soltanto sull’agonismo del campo. Dell’opportunità (o meno) di tornare sui campi si è già discusso, fatto sta che ieri sera ci si è tornati: in un Olimpico surreale quanto il resto degli stadi d’Italia in questi giorni, undici atleti sopravvissuti a una prima parte di stagione stramba anche per gli standard romanisti, hanno battuto per 2 a 1 la Sampdoria guidata dai battiti di un altro grande cuore giallorosso, Claudio Ranieri.
La partita è stata una sorta di trailer di una serie TV, o meglio il riassunto delle puntate precedenti con qualche timida finestra sulle cose a venire (“previously, on AS Roma…”): la squadra è un ibrido di due progetti calcistici di altrettanti direttori sportivi, naufragati entrambi nel corso di soli tre anni, guidati in panchina da Paulo Fonseca, l’unica sorpresa felice degli ultimi due anni, un allenatore competente ed entusiasmante arrivato quasi per caso, e in campo da Edin Dzeko, il cigno di Sarajevo, uno degli uomini simbolo della Roma di questi anni “americani” e da ieri, con la elegante doppietta realizzata, uno dei primi cinque goleador della storia giallorossa.
A sua volta ispirato da quello che si spera sia il futuro a lungo termine della Roma, ovvero Lorenzo Pellegrini, elegante come Giuseppe Giannini ma fisicamente esplosivo come i migliori centrocampisti del calcio attuale, nonché autore di due assist visionari, impressionistici, decisivi.
Tra un retropassaggio sciagurato di Diawara che propizia il gol della Sampdoria e un gol fin troppo severamente annullato a Veretout per l’urto involontario di un pallone sul braccio di Carles Perez, tutto il resto fa di necessità virtù, come d’altronde tocca fare a chiunque in questo nevrotico e iperteso frangente di storia dell’umanità, solo che in questo caso ci teniamo a galla sulla più frivola delle tessere del suo mosaico.
In campo i giocatori esultano e noi gli facciamo eco da casa, ma è soddisfacente quanto un aperitivo su Zoom: solo raramente opportuno, e tuttalpiù consolatorio. Surreale, spoglio, depauperato di gran parte della sua spontaneità, il calcio post-Covid-19 andrà storicizzato in un futuro meno prossimo e meno emotivamente coinvolto, le sue narrazioni andranno elaborate quando ci sentiremo meno fuori posto a vedere la partita distanziati non solo dai vicini di seggiolino allo stadio, ma anche dagli amici del bar, quando ci sentiremo meno deficienti ad alzarci in piedi dopo un gol, strozzando in gola un urlo che non viene sospinto dal boato della curva.
Se si riuscirà a mettere da parte lo straniamento di questa contemporaneità sospesa, magari si potrà ridefinire il concetto di godersi la partita. A maggior ragione se sarà la propria squadra del cuore a vincere. Probabilmente, come per ogni cosa, è solo questione di abitudine.