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di Andrea Marchina
Cari concittadini lombardi,
vi dedico questo scritto con l’intenzione – rafforzata dal condiviso senso di appartenenza alla nostra Regione – di far leva una volta tanto sulla nostra memoria storica, che in più occasioni si è rivelata trattarsi piuttosto di amnesia storica (e non di quelle più transitorie).
Fin dai tempi di quel movimento secessionista chiamato Lega Lombarda (poi passato a Lega Nord e poi a Lega e basta, quando la manciata di voti del nord produttivo cominciava a non bastare più), la Lombardia è sempre stata in prima fila nella battaglia per la conquista dell’autonomia regionale.
E se con la riforma del titolo V nel 2001 si è aperta la strada alla possibilità da parte delle regioni di rivendicare più autonomia dallo Stato, è con il referendum consultivo del 2017 che noi lombardi (con una schiacciante maggioranza) abbiamo dato il via libera al negoziato che ha portato all’accordo preliminare Stato-regione nel 2018 (poi approvato in CdM l’anno successivo).
Qualora l’iter andasse in porto, con la cessione di autonomia su 23 nuove competenze e la possibilità di esercitare maggiori trattenute fiscali da parte della regione, le criticità non mancherebbero. Se il rischio di accaparrarsi il bottino a discapito di una più solidale redistribuzione delle risorse su scala nazionale non scuote di molto il patriottismo retrattile dei più, cosa ancor peggiore sarebbe l’incapacità di gestirle, queste risorse. E, ahimè, la gestione della sanità (di competenza regionale dal 1978) è stato un chiaro esempio di tale incapacità.
I disastri del passato sono ormai conclamati. In un decennio caratterizzato da tagli generalizzati ai danni del nostro sistema sanitario, le giunte regionali lombarde che abbiamo visto sfilare di mandato in mandato hanno il merito di aver fatto peggio di tutti.
Infatti, distruggendo la medicina sul territorio e dirottando il 40% delle risorse destinate alla sanità verso le strutture private (che si sono ben guardate dall’investire questo gruzzoletto in reparti poco remunerativi come le terapie intensive), hanno prodotto un cocktail rivelatosi letale allo scoppiare dell’epidemia. Risultato: ospedali sovraffollati e personale sanitario costretto a scegliere chi ricoverare (e quindi curare) e chi no.
Ma non vogliamo certo fermarci agli ’errori’ del passato. Sono quelli del presente a doverci preoccupare. E così, mentre ci si crogiolava in un costante autoelogio che contrastava l’evidenza più schiacciante, l’attuale giunta Fontana ha inanellato una serie di mancanze e passi falsi.
Sicuramente saltano all’occhio le cose non fatte: la mancanza di un piano pandemico di prevenzione (l’ultimo risaliva al 2009); il ritardo nell’individuazione dei dispositivi di protezione da acquistare; la mancata creazione della zona rossa in Val Seriana (dimenticando di averne la facoltà, salvo poi ricordarsene a distanza di un mese); la mancanza di una adeguata mappatura epidemiologica fin dall’inizio dell’epidemia.
Non che le cose fatte siano andate meglio. Anzi. Prima, nella versione fontaniana di Waiting for Godot di Samuel Beckett, si sprecano quindici giorni aspettando una fornitura di mascherine da un’azienda che non esiste più. Poi, avendo imparato a non fidarsi degli sconosciuti, ci si rivolge in famiglia appaltando senza gara una fornitura di camici all’azienda controllata dal cognato e dalla moglie di Attilio Fontana (salvo poi, una volta scoperti, ricorrere a rari casi di amnesia dissociativa o malintesi coniugali).
Tutt’altro che un capolavoro è stata invece la decisione di riversare pazienti convalescenti (ma non per questo senza carica infettiva) dagli ospedali alle Rsa, generando un effetto domino terrificante e causando la morte di molti anziani ricoverati in quelle strutture.
Ora, che vedere i responsabili pagare per le proprie azioni sia chiedere troppo in Italia lo abbiamo imparato. Mi chiedo se sia chiedere troppo anche cercare di non dimenticarci tutto questo nel giro di qualche anno.