Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

Míchel corre senza fretta lungo la fascia sinistra. Lo sguardo truce, la bocca stirata in una smorfia, il braccio destro che si agita veloce davanti alla sua faccia. Ha appena segnato il suo terzo gol contro la Corea del Sud eppure, in quella serata afosa del 26 giugno 1990, non ha poi molta voglia di esultare. Si gira solo a guardare il pubblico prima di urlare: “Me lo merezco“, me lo merito. Vuole mettere le cose in chiaro, Míchel. È stanco di leggere il suo nome sui giornali, di sentire ripetere che lui è uno dei problemi di questa squadra. E pur di mettere a tacere quelle voci, è pronto anche a far capire la verità, a mostrare quanto profonde sono le crepe che spaccano lo spogliatoio della Spagna.

Tutto viene a galla a maggio, quando le Furie Rosse affrontano la Jugoslavia in un’amichevole pre-Mondiale a Lubiana. La squadra di Osim cancella le fonti di gioco degli avversari, centra tre pali, domina la partita. Ma non basta. Perché al 56’ Emilio Butragueño segna il gol vittoria per gli ospiti. Un successo orrendo, un successo che sbriciola le certezze della Spagna. Il commissario tecnico Luis Suárez è sempre più nervoso. Ordina allenamenti a porte chiuse per proteggere i suoi schemi dalle spie avversarie. E poi impone regole ferree: trabajo y sudor, lavoro e sudore. E basta. Niente sesso, durante il ritiro, poche risate, dieta strettissima. Anche le hostess che lavorano da traduttrici sono malviste. Perché il ct teme che possano distrarre i suoi giocatori.

La Spagna diviene una nazionale fantasma. Poco intervistata, poco raccontata, poco amata. Anche 70 giornalisti della prensa minacciano lo sciopero. Seguono la squadra dal 15 maggio e hanno la netta sensazione di essere sopportati. Due giorni prima dell’esordio della nazionale chiedono un colloquio con Suárez. L’incontro dura due ore e instaura qualcosa che si avvicina molto a una pace armata. Il cittì si sente accerchiato, ma non vuole ammetterlo pubblicamente. Anche perché deve fare i conti con un Paese sicuro di poter mettere fine a quella maledizione che vede la Spagna partire sempre fra le favorite e per poi tornare a casa prima del previsto. È anche per questo che la Federazione ha deciso di fissare un premio di 350 milioni a testa in caso di vittoria della Coppa. Nessuno guadagnerebbe così tanto. Anche se Butragueño e Míchel, due degli uomini più forti sono reduci da una stagione opaca.

“Problemi? ora come ora non ne ho – assicura Luisito – tutto procede bene, nonostante qualche malumore. Mi dicono che la squadra sta giocando male, che abbiamo vinto in Jugoslavia senza meritarlo. Io rispondo di avere pazienza. Mi dicono che qualche giocatore non c’è con le gambe o con la testa. Io replico che non è possibile valutare un singolo in base a una partita”. In verità Suárez sta rimpiangendo il momento in cui ha detto sì alla Federazione. Le sue avventure da allenatore si erano concluse sempre in maniera piuttosto modesta. Tranne che con l’Under 21 spagnola, che aveva guidato fino alla vittoria ai rigori dell’Europeo del 1988. La promozione sulla panchina maggiore era stata la logica conseguenza di quel percorso. Irascibile, nervoso ma allo stesso tempo estremamente comprensivo con i suoi giocatori, l’ex nerazzurro è sempre più in difficoltà.

“Mille, centomila volte meglio giocare che fare l’allenatore – dice – da calciatore non avevo problemi, solo quello di non sfigurare, ma se uno è bravo riesce sempre a limitare le giornate-no. Fare l’allenatore, di una nazionale per giunta, significa dormire poco la notte. Io vado a letto con mille pensieri: questo giocatore non rende, quello si è infortunato, l’altro è furibondo perché non gioca. Piglio appunti a ogni ora, e così le ore della notte bruciano come la fiamma di una candela. E dormi poco, solo con i tuoi pensieri”. E ancora: “Se dico che non me l’aspettavo così il mestiere dell’allenatore faccio la figura dello sprovveduto – spiega – ma non è disonorevole. Credevo che allenare fosse solo una questione di calcio, invece mi accorgo che il pallone rappresenta solo il 10% del mio mestiere. E ci resto male, lo trovo ingiusto”.

Il 13 giugno le Furie Rosse esordiscono al Mondiale contro l’Uruguay di Tabárez (con Belgio e Corea del Sud che completano il girone E). La vigilia è turbolenta. Luisito si dice preoccupato dal gioco duro degli avversari, dribbla le domande sulla formazione. “Qui o vinciamo tutti assieme o tutti assieme moriamo“, annuncia in conferenza stampa. E la prima ipotesi appare subito piuttosto remota. La partita finisce 0-0. Ma solo perché l’Uruguay spreca un calcio di rigore a 3’ dalla fine. Suárez si presenta davanti alle telecamere e non la pianta un attimo di lisciarsi i capelli. “I miei erano molto nervosi, troppo – spiega – Ho visto palloni perduti banalmente, giocatori che si scontravano fra di loro. Così è difficile vincere”.

Ma Butragueño racconta un’altra versione della storia. “Non è un problema di nervi ma di gioco – assicura – non siamo stati capaci di esprimere una manovra chiara e lineare, fin dall’inizio ci è sfuggito il controllo della partita”. È la dimostrazione di quanto la squadra sia spaccata. Da una parte ci sono i calciatori del Real Madrid, dall’altra quelli del Barcellona. E ogni clan domanda, esige, pressa. Le richieste dei blancos si concentrano su Manolo, professione attaccante dell’Atlético Madrid. Non lo vogliono più vedere in campo. Al suo posto, dicono, deve giocare Julio Salinas. Ma non finisce qui. Perché Suárez sta pensando seriamente di far fuori anche Míchel. Il cittì prende tempo. “So perfettamente cosa dobbiamo fare con la Corea – dice – ma non so con quali uomini farlo”.

Alla fine Míchel va in campo e segna tre gol. Poi corre senza fretta lungo la fascia sinistra e urla “Me lo merito”. Suárez, già ferocemente criticato dalla stampa, viene travolto da un uragano. Nel dopopartita un giornalista gli domanda spiegazioni sulla sostituzione di Butragueño. Il cittì lo guarda spazientito e risponde: “E a lei che cosa gliene frega?”. Più tardi aggiunge: “Emilio era stanco”. “Non è vero, stavo benissimo”, gli manda a dire l’avvoltoio. Le voci cominciano a susseguirsi sempre più velocemente. Sembra che i senatori del Real Madrid, appena saputo della volontà dell’allenatore di escludere Míchel contro la Corea, abbiano chiesto e ottenuto una riunione privata con Suárez. E dopo due ore di discussioni Luisito ha deciso di cedere.

Non solo sulla formazione anti-Corea, ma anche sul modulo, praticamente fotocopiato da quello delle meringhe. Contro il Belgio, nell’ultima partita del girone, la Spagna vince ancora. Segna ancora Míchel, su rigore, e poi Górriz rende inutile il momentaneo pareggio di Vervoort. La squadra di Suárez chiude al primo posto e vola agli ottavi. Butragueño non ha ancora segnato e i nervi sono piuttosto tesi. Il 26 giugno le Furie Rosse affrontano la Jugoslavia. Il copione è banale. La Spagna attacca ma non punge. In avanti Butragueño viene declassato da avvoltoio a uccellino comune. Nel secondo tempo Suárez vorrebbe sostituirlo, ma Dragan Stojković gli scombina i piani. Con una finta Pixie mette a sedere un difensore in maglia rossa e appoggia in rete. Luisito protesta e viene cacciato dall’arbitro.

La Spagna fa sorridere i maligni e senza il suo allenaatore riesce a riagguantare la partita grazie a un gol di Salinas. Si va ai supplementari. Passano solo due minuti e Stojković calcia una punizione dal limite che circumnaviga la barriera e si insacca sotto la traversa alla sinistra di Zubizarreta. A fine partita gli spagnoli sanno contro chi puntare il dito. “Avete visto cosa è successo a furia di continuare a ripetere che la Spagna è molto fortunata?”, dice Suárez. “Purtroppo, proprio nel momento decisivo del Mondiale, la dea bendata ci ha voltato le spalle”, impreca Míchel. “Non è la prima volta che ci capita di perdere una partita come questa in cui abbiamo dominato dall’inizio alla fine”, si lamenta Butragueño. L’unica voce contraria è quella di Zubizarreta: “Lasciamo perdere, per favore, la sfortuna. La verità è una sola: purtroppo siamo riusciti a segnare un solo gol pur avendo costruito almeno cinque clamorose occasioni da gol. E quando si sbaglia tanto, alla fine è anche giusto perdere”. Sono le ultime parole prima di preparare le valigie e far tornare a casa l’ennesima spedizione spagnola partita fra canti di gloria e riaccolta fra i fischi.

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