Nel post precedente ho iniziato a raccontare del ricovero più lungo del west (i 75 giorni passati nella famosa Cattoclinica), prendendo il via dalla prime 24 ore di degenza – la metafora stessa di tutte le vicissitudini occorsemi – e dal mio desiderio di riposare. Purtroppo quel giorno sono stato continuamente disturbato (tra flebo, prelievi, infermieri e dottori che entrano in stanza) e non sono riuscito a prendere sonno. Eppure Morfeo l’ho cercato con tutto me stesso, dalle 16 di quel 9 maggio alle 9 del giorno successivo, ma della figura mitologica nessuna traccia. Iniziai a convincermi di un complotto ordito nei miei confronti, ordito da molto in alto… molto in alto.
Riprendiamo dalle 9 di quel mattino, quando il dottore esce dalla stanza e finalmente posso chiudere gli occhi. Cosa che riesco davvero a fare (da non credere alle proprie palpebre), se non fosse che sono cominciati dei forti dolori all’addome. Per cui eccomi catapultato direttamente al bagno, a soffrire: del resto sono un sofferente e soffrire è il mio pane! In tutto questo, addio dormita almeno per un bel po’. Fortunatamente ne esco quasi indenne, ma chi trovo ad attendermi? Ma la terapista, figura che mancava: deve sottopormi a una specie di macchina della tortura.
Cerco invano di dirle che non è una buona idea, ma lei insiste: “Se ti vuoi curare, la devi fare”, “ok, ma se la faccio adesso poi starò male”. Infatti così è andata: con gli occhi che gridano vendetta e che a stento rimangono aperti, passo un’altra mezz’ora chiuso in bagno. Purtroppo quest’ultimo è anche cieco, e con i non vedenti noi carrozzati non andiamo d’accordo: loro non ci possono proprio vedere, e noi, lo ammetto, non facciamo nessun passo verso di loro.
Malgrado ciò ne esco ancora una volta sulle mie ruote e non vedo l’ora di guadagnare le coperte allorquando torna la terapista, ma questa volta non ne voglio sapere. Quindi mi manda camice bianco – ma io devo dormire! -, a cui spiego le mie ragioni e mi grazia dalla tortura: ne approfitta però per visitarmi, e te pareva.
Mi fa domande, mi ausculta, prova febbre, saturazione, pressione e chi più ne ha più ne metta, poi mi comunica che devo fare una flebo antibiotica: ecco l’infermiera, passano 30 minuti e ho di nuovo la vena libera. Si fa così mezzogiorno, ora del pranzo: mangio poco e niente, dopodiché fa il suo esordio la flebo che sostituirà il cibo per il prossimo periodo.
Necessito nuovamente di tornare in bagno, quindi si richiama l’infermiera che deve staccare la flebo: tempo di attesa 10 minuti che in quella situazione parevano ore. Per giunta l’attività si replica altre volte: ore dormite 4 minuti.
È metà pomeriggio, ma questa volta tutto dovrebbe andare secondo i piani: mi sento meglio e con dottori/infermiere/terapista ho già dato. Riesco ad addormentarmi e i testimoni asseriscono che ho chiuso le palpebre la bellezza di mezz’ora (34 minuti in tutto), poi fa il suo ritorno l’infermiera: “Dobbiamo spostarti in un’altra camera, così sarai più vicino ai medici”, che tradotto significa: sono preoccupati per la tua condizione (confortante, direi).
Mentre il cambio della stanza richiede rumori, luci accese, persone che parlano e Morfeo deve farsene una ragione. Tuttavia il viaggio sul letto dalla mia stanza a quella assegnatami, in fondo al corridoio, ha avuto il suo perché: durante il trasferimento, infatti, incrocio il ragazzo con cui sto scambiando la camera. Mi vede e chiede all’infermiera se sono io a prendere il suo posto. Risposta affermativa, allora euforico, peraltro senza motivo, mi saluta e mi esorta in questa impresa: “Ehi, batti cinque”.
Mi basta guardarlo un po’ perplesso e capisce che lo stare fermo è la mia arte: “Ah scusa scusa, non l’avevo capito, scusami davvero, non potevo sapere…”. Perché è sempre uno spasso vedere il normodotato in difficoltà e soprattutto in questa situazione, per cui non mi interessa più dormire: la sua espressione vale il biglietto, e con la storia del complotto temo di aver esagerato.
A trasloco ultimato dichiaro: “A questo punto aspetto questa sera per dormire”, ero proprio soddisfatto e non mi sentivo neanche più stanco. Passa un quarto d’ora e comincio a prendere sonno, addirittura mi addormento proprio. Adesso che non volevo? Mi spiace, ma devo tornare sui miei passi: questo è un complotto bello e buono.