Ebbene sì, il dibattito sul sindacato dei militari non mi appassiona. Non perché sia insensibile al tema dei diritti dei “cittadini in divisa” come li chiamavamo una quarantina di anni fa ai tempi dell’approvazione della legge dei principi sulla disciplina militare. Una legge ricordata oggi quasi solo per aver creato la rappresentanza militare, ma in realtà fondamentale perché riconosceva il militare come titolare di diritti oltre che di doveri. Un assunto allora per niente scontato, anzi. Il regolamento di disciplina allora in vigore non venne mai pubblicato sulla Gazzetta ufficiale eppure incideva direttamente e pesantemente sulle vite degli uomini alle armi. Soldati di leva, prevalentemente, ma anche sottufficiali e ufficiali.
Non mi appassiona non perché non creda che, sia pure in divisa, i militari abbiano non meno diritti degli altri cittadini. Sono anzi da sempre convinto del contrario. Lo dimostrano, se qualcuno avesse bisogno di prove, le decine di denunce che ho avuto da direttore di Forze armate e società, la rivista dei sottufficiali democratici dell’Aeronautica pubblicata a Treviso dalla metà degli anni Settanta, o la mia partecipazione al volume I diritti del soldato pubblicato da Feltrinelli nel 1978. A parte il sottoscritto, allora soltanto un giornalista felice e sconosciuto (© Gabriel Garcia Marquez) e oggi altrettanto sconosciuto ma meno felice, a quel libro contribuirono personaggi come Giorgio Rochat, Sandro Canestrini, Aurelio Galasso per dire come il tema dei diritti dei militari coinvolgesse settori importanti della società civile. Lo dico giusto per mettere delle date certe ai miei convincimenti.
Non mi appassiona perché adesso vedo più gente in cerca di visibilità che persone seriamente impegnate nella ricerca del bene comune. Così mi sembra essere oggi il sindacato per i militari: una conquista per una minoranza assoluta, una opzione opportunistica per i soliti pronti a saltare sul carro qualunque esso sia. Non si spiegherebbe altrimenti come possano essere già 29 le sigle che hanno chiesto l’accreditamento al Ministero della Difesa. A puro titolo di confronto, i sindacati civili della Difesa sono sei.
In tutto questo, la politica, la stessa che dovrebbe dettare le regole, è palesemente indifferente alla questione, più affascinata dalle sirene degli stati maggiori che dai richiami della Costituzione. Solo così si spiega perché, a due anni dalla sentenza 120 della Corte costituzionale che ha confermato la legittimità del sindacalismo militare, le norme che dovrebbero regolarne l’attività siano ferme in Parlamento e il testo ultimo uscito dalla commissione Difesa della Camera sia un pessimo lavoro.
“Questo testo è frutto di un patto scellerato tra il M5S, la Lega ed il Pd, nato sotto il patrocinio della relatrice, on. Corda e scritto e diretto dai vertici militari. Il risultato ricorda in maniera inquietante le Corporazioni di epoca fascista – tuona Paolo Melis, segretario del SIAM Aeronautica – Insomma quello che il Parlamento sta portando avanti non è una legge che riconosce i diritti sindacali ad una categoria di lavoratori che fino ad oggi ne è stata esclusa, ma una sorta di bocciofila o dopolavoro ferroviario”.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di leggere una analisi puntuale e bene articolata dell’ultima stesura del progetto di legge all’esame della Camera. È stata elaborata dall’ultima arrivata delle sigle sindacali, il Sindacato autonomo militare organizzato Esercito (SIAMO Esercito) alla cui testa apprendo esserci due graduati, Silvestro Attanucci e Davide Delcuratolo. Già solo questo potrebbe spiegare perché certi generaloni paventino la catastrofe. Se dovessimo parlare in termini di materialismo storico qui saremmo al rovesciamento della prassi, ovvero “dove andremo a finire, signora mia”.
Il documento è interessante, e spero che molti decisori possano leggerlo, perché non sottolinea solo le limitazioni più macroscopiche, ma si sofferma su trappole semantiche sparse qua e là che nel nostro mondo di legulei potrebbero diventare dei pericoli mortali. Prendiamo il comma 1 dell’articolo 2 che parla dei principi di organizzazione delle associazioni militari. Oltre a quelli ovvi, già elencati nella Costituzione, “democraticità, trasparenza e partecipazione” ci aggiunge la “coesione interna, l’efficienza e la prontezza operativa”. Che sarebbe come dire che il sindacato dei ferrotranvieri dovrebbe scrivere nel suo statuto che si impegna per la puntualità, dei mezzi e il buon funzionamento dell’aria condizionata nei filobus. Oppure il comma 2 dell’articolo 5, dove si esclude la trattazione da parte del sindacato di materie “afferenti” (sic!) l’ordinamento, il rapporto gerarchico funzionale, l’impiego del personale.
Resterebbe fuori soltanto la trattazione di materie contrattuali: quanto vale l’indennità di supercampagna, quanti giorni di permesso retribuito all’anno. Tanto valeva scrivere ciò che possono fare. Se la sarebbero cavata con una riga. È il ripescaggio di quello che Falco Accame quarant’anni fa aveva pronosticato sarebbero state le competenze della Rappresentanza militare. Scegliere tra le mele e le pere a mensa.
Curiosa, ma giudicata improponibile dal documento e vorrei dire anche dal buon senso comune, la percentuale di iscritti necessaria per essere considerati rappresentativi a livello nazionale: il quattro per cento della forza effettiva. Il che vorrebbe dire che, facendo il solito conto della serva, essendo oggi la forza effettiva di circa 300mila uomini e donne (Forze armate, Carabinieri, Guardia di finanza) e una trentina ormai i sindacati, questi dovrebbero contare su complessivamente 360mila iscritti per essere rappresentativi. Forse neppure la Fiom ne ha così tanti.
Ma il meglio di sé il progetto di legge lo dà alla fine dove parla della giurisdizione e della conciliazione. Per ragioni misteriose la competenza sulle controversie di lavoro non è del giudice del lavoro (ma va?) ma del Tar. Chissà quali sono le fini riflessioni giuridiche che hanno indotto il legislatore, evidentemente ben consigliato da qualcuno, a preferire il giudice amministrativo a quello del lavoro. Procedimenti più veloci? No, col Tar tutti procedimenti che coinvolgono i ministeri sono giudicati a Roma. Ve lo immaginate. Giudici meno corrotti? Il bello della corruzione giudiziaria italiana è che è trasversale. Ogni ufficio giudiziario ha le sue mele marce o pecore nere o compagni che sbagliano. Fate voi.
Il documento di SIAMO Esercito sospetta che ci sia una volontà di separatezza. Una volontà tutto sommato innocua a prima vista. Ma io che sono sospettoso ci vedo il bisogno di pilotare il giudizio all’estremo. Il giudice di appello del Tar è il Consiglio di Stato, un florilegio di pensionati illustri, con generali, alti funzionari dello Stato, eccetera. Ricordate Roberto Speciale, l’ex comandante della GdF che si fece porta1re le spigole in aereo da Roma a Verona e fu per questo condannato dalla Corte dei Conti a rifondere lo Stato? Se non vado errato anche lui finì al Consiglio di Stato. Come ci arrivò Nicolò Pollari, capo dei servizi militari, organizzatore tra l’altro un sistematico dossieraggio gestito da Pio Pompa. E ad esempio fu un generale dei Carabinieri, consigliere di Stato, a redigere il parere favorevole al transito del Corpo forestale (civile) ai Carabinieri (militari).
Insomma, una volta la fantasia avrebbe dovuto distruggere il potere. Adesso sembra che il potere abbia fatto prigioniera la fantasia. O almeno ci prova.